Salari, produttività e referendum
I salari alti costringono le imprese a investire sull’innovazione. Più o meno questa è la tesi di Karl Marx, inserita nel catalogo delle “leggi universali” del capitalismo, come struttura positiva. Lo stimolo dei costi è un incentivo importante allo sviluppo di tale struttura, anche secondo gli economisti classici, precursori di Marx, come David Ricardo e Adam Smith, rappresentanti intellettuali della classe imprenditoriale emergente contro i landlord dell’Ancien Régime. L’automazione industriale è uno dei motori dello sviluppo e, paradossalmente, la lotta di classe e l’organizzazione sindacale sono un carburante adatto a farlo funzionare. La produttività del lavoro dipende dall’inserimento di macchine nei processi manifatturieri e, mutatis mutandis, dei pc e dell’intelligenza artificiale nei processi di lavoro intellettuale.
Questo ragionamento riemerge oggi in occasione dei referendum lanciati dalla CGIL contro la flessibilizzazione del mercato del lavoro. Il Jobs Act è additato come “causa” della riduzione dei salari e della produttività decrescente delle imprese, proprio perché toglie i vincoli salariali “necessari” ai processi di innovazione.
Tutto si tiene all’interno di uno schema narrativo che postula un rapporto causale tra livello salariale e incentivo a innovare, nella struttura del capitalismo maturo.

E tuttavia c’è almeno un’altra spiegazione degli eventi, coerente con la teoria di Schumpeter, che rovescia il rapporto causale tra struttura e sovrastruttura. I processi cognitivi sono propulsori, almeno in parte, “esogeni” al sistema produttivo, e il reddito prodotto per unità di risorsa utilizzata può crescere in ragione di narrazioni/procedure condivise, “disruptive”, più che di leggi universali/automatiche dei costi e dell’utilità.
Gli eventi successivi all’ingresso dell’Italia nell’area Euro potrebbero essere, secondo questa prospettiva, condizionati dall’adesione ai principi comunitari, dal rispetto dei vincoli di Maastricht e dall’ideologia liberista, ma anche e soprattutto dall’emergere in Italia di una “narrativa” specifica contraria all’innovazione e agli aumenti di produttività. Una narrativa brillantemente sintetizzata da Luca Ricolfi nel sul noto pamphlet “La società signorile di massa”.
E per “narrativa”, in coerenza con la teoria della complessità, intendiamo uno schema di azione che prende forma nella sovrastruttura, non grazie a “leggi universali” (conoscibili solo attraverso le scienze positive che esplorano l’evoluzione della struttura), ma a “processi cognitivi” (conoscibili solo attraverso strumenti del pensiero negativo – per ora utile, per ora vero, per ora efficace) che cambiano la percezione del reale e impongono ruoli e funzioni a cittadini e imprese, a prescindere dal calcolo razionale e dagli obblighi imposti dalle leggi strutturali.
Da questo punto di vista l’affermarsi di una narrazione orientata alla rendita, invece che all’organizzazione del lavoro produttivo, potrebbe essere responsabile del declino nazionale e dei livelli salariali decrescenti, ben più dell’assenza di efficacia dell’azione sindacale e della riforma Renzi.