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04 Febbraio 2024 ~ 0 Comments

Dal curare al prendersi cura

L’uso discrezionale delle informazioni disponibili è ritenuto un dovere di ogni lavoratore, all’interno di filiere sempre più complesse, che compongono il sistema produttivo di un paese avanzato.

Litri di inchiostro sono spesi per sollecitare autonomia e competenza tra i giovani che si predispongono a entrare nel mondo del lavoro. Qualche resistenza a questa prospettiva permane, a dire il vero, tra gli imprenditori e i manager educati all’efficienza della gerarchia e ai processi di qualità. Ma la cultura della “lean production” sta inesorabilmente prendendo piede.

Dappertutto, tranne che nella Pubblica Amministrazione (PPAA). In questo segmento importante del nostro sistema, vige la regola della totale alienazione del lavoratore. L’impiegato pubblico è infatti educato al rispetto delle procedure, come priorità assoluta, e alla rinuncia all’uso della testa. 

Questo genere di situazione genera una diffusa insoddisfazione, una persistente sensazione di inadeguatezza dei servizi e una vera e proprio ostilità nei confronti della burocrazia. I funzionari pubblici si identificano (incalzati da grillini, tipo Travaglio) con l’assoluto rispetto delle regole, anche quando queste fanno a pugni con il senso comune e soprattutto con le più elementari regole di efficienza.

Le regole, nella PPAA, valgono più del risultato. E un funzionario che si azzardi a usare la testa o ad avviare una procedura innovativa, che migliori il risultato finale del suo lavoro o l’impatto del servizio offerto sull’utenza finale, è stigmatizzato come pericoloso sabotatore. Ciascuno di noi ha migliaia di esempi in proposito ed è rassegnato a convivere con un sistema antiquato, un lavoro poco dignitoso e un servizio inefficiente. 

Come rovesciare questa situazione? Partendo dai casi concreti e progettando filiere “lean” più performanti, attraverso il coinvolgimento degli operatori. 

Nella filiera sanitaria, ad esempio, gli esperti ritengono possibile ridurre le liste di attesa, attraverso un’interazione diretta tra medico di base e specialista (anche grazie alla disponibilità di nuove tecnologie complementari al telefono – telemedicina). La macchina burocratica si inserisce nella questione, annullando questa possibilità, con ossimori (buchi neri/varianze organizzative) del tipo: 

  • il medico di base prescrive una prova da sforzo al paziente 70enne (impegnato in attività sportive), come strumento di prevenzione di eventuali disturbi cardiaci e rischi connessi (anche per non appesantire il sistema sanitario d’urgenza, in caso di infarto)
  • il centralinista del laboratorio di analisi eccepisce sulla richiesta, poiché il protocollo prescrive che il test debba essere autorizzato da un cardiologo specialista; il cortocircuito blocca l’intera filiera perché nessuno capisce più se partire dall’uovo o dalla gallina.

La questione dovrebbe essere superata dal famoso “sistema integrato di gestione delle informazioni” relative al paziente, di cui si favoleggia da anni. Tale sistema sarebbe in grado di verificare, in automatico, che il paziente ha già effettuato un Holter in precedenza, ha verificato (con il medico di base e lo specialista) alcune anomalie e torna oggi a chiedere una prova da sforzo, come test di complemento del quadro clinico già definito nella sua “storia”.

Qual è il problema? Che il protocollo, cui si attiene il solerte centralinista (alienato nel senso che non usa il cervello e si limita ad applicare le procedure) è troppo rigido e non si adegua alle specifiche situazioni individuali (che sono la norma in sanità!).

A questo punto, l’analista di organizzazione, partendo dal buco nero/varianza di sistema, potrebbe intervenire per migliorare il protocollo. Ma quanti analisti di organizzazione abbiamo all’interno dell’ULSS (quelli esperti in procedure lean, ovviamente, finalizzate ai risultati e al miglioramento continuo)? Zero come l’azienda deputata alla supervisione del sistema nel Veneto. E perché?

Appunto perché alla guida della filiera sanitaria (mezza pubblica e mezza privata) sono collocati dirigenti educati a investire sul lavoro alienato, sulla rigida divisione dei compiti tra operatori che non collaborano tra loro o, peggio ancora, si appellano ai vincoli definiti dalla legge per farsi gli affari propri. In queste condizioni il sistema funziona solo grazie a continui “fuori norma”, rischiosi per gli operatori, tanto quanto i crimini contro lo Stato, ma essenziali al raggiungimento di dignitosi risultati finali. 

Il rapido sviluppo di laboratori privati si inserisce in questa vistosa crepa del sistema e diventa attrattivo nei confronti di molti operatori, mortificati dal sistema pubblico di gestione, e desiderosi di usare la testa anche a scapito dei fatti propri. 

C’è tuttavia un problema tecnico di vitale importanza, che deve essere messo al centro di questa deriva: oltre a dirigenti esperti nella cultura lean è indispensabile investire su operatori (o meglio, team di operatori integrati) che svolgano funzioni di coordinamento; altrimenti la filiera complessiva non può essere efficiente, sia nel pubblico che nel privato.

Come nella grafica (Mondadori, 1980) è stato necessario costruire figure nuove di coordinamento (team leader capaci di mediare il punto di vista di fotografi, cromisti, stampatori e tiraprove) per assicurare un servizio personalizzato al cliente, nella sanità è indispensabile creare figure professionali, che rompano l’attuale rigida divisione dei compiti tra operatori, attuata attraverso protocolli e regolamenti inefficaci, e introducano processi di integrazione delle teste (punti di vista) e delle competenze. 

Un esempio è il “curatore di storie” che accompagna pazienti, medici e OSS all’interno dei processi di analisi, diagnosi e cura (inclusi i pagamenti e i regimi tariffari) che dovrebbero essere attivati nelle Case della Salute.

Dal curare al prendersi cura (progetto elaborato dagli operatori e dalle istituzioni della Val d’Astico, con capofila l’Unione Montana Alto Astico) si propone di sperimentare questa svolta organizzativa, come passaggio preliminare all’innovazione, in un territorio di montagna particolarmente svantaggiato e poco attrattivo.

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