Salario Minimo e Contrattazione Decentrata
Giuseppe Milan sostiene, nella sua articolata analisi della situazione salariale e contrattuale del Paese, che è ormai necessario sostituire l’attuale e inefficace livello della Contrattazione Nazionale di Categoria, con una contrattazione nei luoghi di lavoro (azienda e territorio) e un salario minimo definito dalla legge. Gli fa eco Christian Ferrari, affermando che i salari sono più bassi in Italia, rispetto ad altri paesi, perché non si rinnovano i contratti. E dunque il Parlamento deve decidere nuove norme per far aumentare i salari minimi.
A entrambi pongo una domanda: ma dove è finita l’autonomia collettiva? perché, negli ultimi trent’anni, le parti sociali non hanno dato attuazione alla contrattazione decentrata, che pure l’Accordo di Luglio prevedeva, in via complementare alla politica dei redditi?
La risposta non è semplice e va ricercata nei cambiamenti strutturali del sistema economico, della società e della cultura del lavoro nel Paese. Ma è necessaria.
La contrattazione collettiva ha assunto un ruolo “costituente” negli anni ’60 e ’70, quando milioni di contadini si sono riversati nelle periferie urbane, per entrare a far parte delle forze di lavoro industriali. Quei nuovi cittadini si sono trovati a vivere all’interno di un ambiente nuovo, in forte evoluzione, e hanno ridefinito la propria identità attraverso l’azione collettiva. Un’azione fortemente orientata all’egualitarismo. Azione sviluppatasi in parallelo alla contestazione delle gerarchie ecclesiastiche e delle istituzioni tradizionali, da parte di milioni di studenti universitari e medi, alla ricerca anch’essi di una nuova identità.
In quella fase la domanda di rappresentanza è stata interpretata dalle forze sindacali che hanno saputo influenzare la costituzione materiale del Paese e la stessa normativa (Statuto dei Lavoratori) più delle forze di governo e opposizione.
Negli anni successivi la spinta egualitaria e l’autonomia collettiva sono venute meno, non solo perché gli ex-mezzadri e contadini sono diventati imprenditori dei distretti, ma anche perché la società si è frantumata, secolarizzata, e ha ridotto la domanda di rappresentanza collettiva (costituente). Negli ultimi vent’anni, poi, con lo sviluppo del terziario, il lavoro si è parcellizzato ancora e la domanda di servizi individuali è diventata prevalente, tanto che le associazioni collettive si sono trasformate in una succursale dello Stato.
Parlare di contrattazione collettiva oggi è quindi un ossimoro, poiché i lavoratori non sono alla ricerca di un’identità collettiva e di un ruolo di cittadinanza attiva. Sono soggetti passivi, in attesa di riforme, salari e percorsi formativi decisi dalle autorità di governo o dai dirigenti delle imprese. La contrattazione decentrata non sanno cosa sia, così come non sanno cos’è la produttività.
© Quotidiani Gruppo GEDI Nordest (6 settembre 2023)