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09 Gennaio 2023 ~ 0 Comments

La scuola

MDA

Settembre 1989. Hotel Intercontinental, Praia do São Conrado. Congresso mondiale dell’industria grafica. Dalle finestre della mia stanza apprezzo la vista della Rocinha, la più grande favela di Rio de Janeiro. Considero, da economista, il tema del mancato sviluppo e le spaventose differenze sociali del più grande paese dell’America Latina: il Brasile.

A sud della strada da Gàvea, dalla parte del mare, centri commerciali del tutto simili ai mall nordamericani e agli outlet europei. Maggiolini gialli senza sedile, con funzione di taxi a bassissimo costo. Cambio dollaro/cruzado particolarmente favorevole per uno straniero, con l’inflazione al 2.500%. Vincite da casinò nel giro di poche ore: 500 cruzados per un dollaro la mattina, 600 cruzados per dollaro la sera. Atmosfera coloniale, turismo di lusso, vita da signori. 

A nord della stessa strada, abbarbicata ai pinnacoli di granito nero che dominano la baia, un’immensa distesa di baracche senza intonaco, stradine erte e fangose, cumuli altissimi di rifiuti, alla porta della favela, stazioni di autobus brulicanti di moradores, reddito medio cento volte inferiore e aspettative di vita ancora più basse. Unica soddisfazione: un panorama mozzafiato (a sud della Gàvea i ricchi se lo sognano) e un torrente nero di liquami che scarica a mare, tagliando in due la spiaggia dei turisti a 5 Stelle.

Con un gruppo di amici italiani, accetto la sfida di una squadretta di giovanissimi favelanti a torso nudo, sulla spiaggia davanti all’hotel. Vinciamo. 

Siete argentini?” chiedono gli sfidanti, scrutando la lingua, più che la classe esibita sul campo. “No, siamo italiani!” rispondiamo in coro. 

Stupore e ampio sorriso tra i giovani della praia, che si sciolgono in una calorosa stretta di mano, a testimonianza della reputazione che la nostra scuola di calcio raccoglie nel mondo.

Non avevamo ancora visto Copacabana. Il nostro orgoglio calcistico stava per trasformarsi in meraviglia e timore reverenziale di ritorno, alla vista della più grande “scuola” di calcio del mondo. La spiaggia di Copacabana, appunto. 

Ancora oggi fatico a trovare le parole adatte a descrivere la situazione.

Uno spazio immenso, tra la strada e il mare. Uno spazio popolato di migliaia di apprendisti del calcio. Altro che turisti allineati sul bagnasciuga! Quelli arrivano a carnevale, a febbraio. A settembre, la spiaggia è dominata da una serie infinita di palestre a cielo aperto, con migliaia di praticanti assembrati in quello che appare un complesso sistema di apprendimento/orientamento.

Ai margini della spiaggia, la scuola elementare. Gruppi di ragazzini mignon (meninos da rua) in piccole comunità circolari, una decina di partecipanti al massimo, con le ciabattine sotto un’ascella e il berretto di lana sotto quell’altra. Chiacchierano del più e del meno, dell’ultimo incontro tra Fluminense e Botafogo, delle nuove stelle emergenti, del prossimo carnevale e dei blocos da organizzare. Intonano le prime strofe delle canzoncine da imparare a memoria per il torneo più ambito della città, quello delle scuole di samba. Decine di classi circolari con il pallone nel mezzo, che non cade mai. Colpi di punta, di testa, palleggi, ginocchi, di petto, senza mai smettere di chiacchierare, senza perdere di vista il contesto e senza che la palla tocchi il terreno.

Più in là si intravede la teoria delle medie. In direzione del mare, infinte serie di piccoli spazi: campi da pallavolo, pallacanestro, tiro al piattello, vialetti di bocce…. Migliaia di giovani, più grandicelli, lavorano palloni su palloni, con un obiettivo prestabilito: allenano la mira, la testa e le gambe, centrano canestri o minuscole porte a distanza, imparano a stoppare il pallone, di testa o in rovesciata, ripetono colpi difficili anche senza avversari. 

Oltre l’ABC del palleggio elementare (le aste), la scuola media di Copacabana insegna a dominare sé stessi e a governare il pallone (il sussidiario). La sabbia, senza dubbio aiuta. A diventare giocolieri, a guardare il pallone da sotto e da sopra, a misurare le posizioni possibili, anche quelle che i campi d’erba del nord e i cortili coperti di asfalto rendono impraticabili. Tiri da fermo, con la barriera, calci di rigore a ripetizione. 

Tutto alla luce del sole, con una costante visione delle tappe di apprendimento: dalle scuole elementari alle superiori, fino all’università, vicino al mare. 

Attorno alle palestre a cielo aperto, centinaia di spazi destinati al calcetto, al confronto diretto tra piccole squadre. Spazi grandi quanto un’area di porta, pieni zeppi di difensori, che gli attaccanti provano a superare in estenuanti dribbling, palla al piede o con veroniche alla Pelè. 

Più in là, vicino al mare, una sterminata sequenza di campi da calcio effettivi, con tanto di arbitri e allenatori, squadre da 11 per tutte le età, mescole educative di giovani tra gli anziani. Scalzi.

Eccola la scuola del calcio. La filiera che allena e valuta le competenze. Lo spazio “inter-classista” che orienta la comunità degli adepti e porta al vertice, del campionato e della Seleção, i giovani che se lo meritano. Non è un sistema realmente democratico, ma un “distretto” che favorisce i talenti e ben si concilia con l’idea di “ascensore sociale”, aperto a tutti.  

Nello spazio di Copacabana ci sono “classi/imprese”, dentro uno schema aperto, nel quale ciascun partecipante è libero di inventarsi un piano di studi, saltando, se necessario, qualche passaggio, arrischiando un inserimento anticipato nei corsi di livello superiore. Tutti hanno la visione d’insieme, con un semplice giro di sguardo. 

È un lampo nel buio. Per me. Intuisco come deve funzionare la scuola, in generale, non solo nel mondo del calcio. 

Torno in Europa con questa visione e uno schema da replicare (nella meccatronica, come nelle scienze sociali). Trovo tracce di filiera innovativa in Danimarca, sempre meno in Italia. Non solo nel calcio, ma anche nei nostri distretti, dove lo spazio aperto del confronto inter-classista (nelle osterie strategiche di filiera) inizia a lasciare il posto a percorsi ordinari. Ed è solo il 1989.

© Quotidiani Gruppo GEDI Nordest (9 Gennaio 2023)

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