Home » MDA » Partecipazione: manca una rappresentanza autorevole del lavoro concreto

30 Settembre 2021 ~ 0 Comments

Partecipazione: manca una rappresentanza autorevole del lavoro concreto

MDA

Il dibattito sulla ripresa, il PNRR, gli investimenti sulla competitività del sistema Italia, ripropone oggi il tema dell’equilibrio di poteri all’interno delle grandi imprese industriali e di servizio. Se tutto il potere resta in mano agli stakeholder finanziari, il sistema produttivo si espone al rischio di un sistematico sotto-investimento nelle competenze chiave e nella complessità che garantisce lo sviluppo nel lungo periodo.

La separazione tra capitale finanziario e industriale contribuisce ad alimentare un’anomalia pericolosa, dicono alcuni analisti, che distrugge valore, a lungo andare. Se l’impresa resta proprietà esclusiva dei soci finanziari e gli altri stakeholder sono coinvolti, attraverso politiche di “responsabilità” sociale, ma, nei fatti, restano ai margini delle decisioni strategiche, si attivano dinamiche che non portano nulla di buono.

In altri paesi, ad esempio negli USA, per far fronte a questo problema, si sono costruiti accordi tra soci finanziari e portatori di competenze più equilibrati. Le aziende quotate al NASDAQ mettono a disposizione dei collaboratori stock-option che valorizzano il loro contributo, così come elaborano patti para-sociali orientati alla condivisione dei brevetti e alla tutela delle conoscenze strategiche nel lungo termine. Non guardano soltanto ai risultati di breve periodo.

In Germania e in Giappone le rappresentanze dei lavoratori sono riconosciute come parte integrante della governance aziendale e partecipano alle scelte tecnologiche e di mercato, non solo alla distribuzione del reddito.

Come risolvere l’anomalia italiana?

Per superare il conflitto capitale-lavoro, la soluzione privilegiata finora nel nostro paese è stata quella di trasformare i dipendenti in piccoli imprenditori. Nei distretti e nelle filiere industriali, l’autonomia del lavoro si è realizzata attraverso il passaggio da collaboratore dipendente a fornitore su commessa. La gestione del ciclo produttivo e degli investimenti è stata ripartita tra soggetti imprenditoriali, che si coordinano attraverso regole di mercato o quasi-mercato.

All’interno delle grandi imprese, tuttavia, continuano a vigere regole di estraneità reciproca, di tutela del posto e delle condizioni di lavoro, ma non si creano strumenti di governo che garantiscano un ruolo attivo dei lavoratori nelle scelte aziendali, a partire dalla valorizzazione delle loro competenze.

Si pensi al caso Alitalia. Per anni lo Stato ha investito nella tutela dei posti di lavoro (e perfino del capitale investito dagli azionisti privati), senza mai coinvolgere i lavoratori (piloti e tecnici in testa), nel ri-disegno della rete e dei servizi in una logica innovativa. La partecipazione dei dipendenti alla gestione si è realizzata, solo per pochi anni, attraverso l’ingresso di alcuni sindacalisti nel CdA, ai tempi di Domenico Cempella, ma non ha modificato la costituzione materiale dell’azienda (come accaduto, ad esempio, in Ryanair).

Una situazione analoga si è verificata all’interno di FIAT, tanto che le competenze di sviluppo delle tecnologie automotive piemontesi sono andate disperse, nelle aziende di fornitura (Pininfarina) o nel distretto automotive Emiliano, grazie a Muner e ad altre iniziative finalizzate a privilegiare l’approccio industriale, rispetto a quello finanziario. Marchionne ha compiuto un miracolo, portando la famiglia proprietaria di FIAT nel circuito globale degli azionisti automotive, ma ha concorso al declino della complessità e delle competenze applicate al settore automotive nel nostro paese.

Ciò è accaduto proprio per l’assenza di strumenti di partecipazione, analoghi a quelli utilizzati da Volkswagen e Toyota, nonostante la svolta di Marentino (propugnata come innovativa da Cesare Romiti, alla fine degli anni ‘80) e le politiche di formazione e responsabilità sociale adottate nel periodo recente (Learning City).

Qual è il problema?

Che non esiste in Italia un pensiero e un movimento partecipativo, orientato a rovesciare la costituzione materiale delle grandi imprese, attraverso un patto di pari dignità (organizzativa) tra il management del lavoro e il management degli asset finanziari.

L’ondata di acquisizioni, da parte di fondi internazionali, nelle imprese medie (in private equity) dei nostri distretti e nelle filiere chiave del Made in Italy, ha allargato lo spazio dell’anomalia nazionale in segmenti industriali finora salvi dal declino generale, cresciuti sulla base di accordi non scritti e consuetudini comunitarie.

In questi segmenti, gli obblighi sociali, il carattere degli imprenditori di prima generazione, il mercato locale delle professionalità tecniche, hanno funzionato da mitigatori. I capitali accumulati attraverso il contributo di tutti (stakeholder produttivi, finanziari e istituzionali) sono rimasti nel territorio e nella filiera, re-investiti secondo una logica (sia pure paternalista) di sviluppo della complessità, anche nel caso delle de-localizzazioni.

Da qualche tempo, però, in ragione del progressivo passaggio a competence network globali (nei servizi e nelle tecnologie digitali), gli interessi del capitale finanziario sembrano tornati a sovrastare quelli industriali e territoriali di lungo periodo.

Si pone dunque il problema di contrastare questa tendenza, rilanciando l’idea di un approccio partecipativo “italiano”, centrato sulla rappresentanza delle competenze e della complessità del lavoro, come quello ipotizzato dalla CISL negli anni ’80 e ’90.

A cosa facciamo riferimento?

All’ipotesi che ha preso forma al Centro Studi di Firenze, in Sindnova e in numerose categorie della CISL (FIS in primo luogo e FIT, solo per fare due esempi), negli anni ’80 e soprattutto nel passaggio tra Prima e Seconda Repubblica.

Quell’ipotesi conteneva il seguente obiettivo: rafforzare il sistema italiano, superando i limiti del capitalismo finanziario, attraverso un cambiamento strutturale, non tanto nelle relazioni di lavoro, quanto negli strumenti di conoscenza e rappresentanza del lavoro all’interno delle aziende, verso una “governance duale partecipata”.

I promotori di quell’ipotesi ritenevano che proprio dalla qualità degli strumenti e dei rappresentanti sindacali, possa derivare un migliore equilibrio tra capitale industriale e finanziario, e dunque la possibilità di avere un capitalismo utile per il paese, oltre il capitalismo dal volto umano delle piccole imprese e dei distretti (Giacomo Becattini).

Quell’ipotesi è stata fraintesa e snobbata dal pensiero politico e sindacale dell’epoca, soprattutto di “sinistra”, come ipotesi riformista, stampella di un capitalismo industriale e finanziario che bisognava contrastare con ogni mezzo.

Nella fase in cui, per evitare il default successivo alla crisi del 1992, si è dovuto per forza adeguare i sistemi gestionali delle grandi imprese statali a quelli in voga negli USA e nell’Europa neo-liberale del Trattato di Maastricht, quell’ipotesi è stata sostituita dall’Accordo di Luglio, dalla politica dei redditi, dal patto sociale proposto da Carlo Azeglio Ciampi.

Quel patto ha forse salvato l’Italia, ma non ha introdotto linee guida innovative per la costituzione materiale della Seconda Repubblica. Invece di promuovere nuove forme di gestione della complessità e del lavoro, in una prospettiva di lungo termine, quel patto ha trasformato il sindacato in un’istituzione politica, incapace di svolgere il mestiere di rappresentanza del lavoro nei luoghi di produzione (come risorsa essenziale all’impresa e allo sviluppo del paese) in modo autonomo e manageriale.

Tutto il contrario di quanto ipotizzato dai partecipativi della CISL degli anni ’80, che puntavano a introdurre nelle grandi e medie imprese italiane un patto sociale innovativo, funzionale a “transitare” il Paese veso forme più evolute e produttive di convivenza civile.

Se la solidità (la resilienza di lungo termine) del paese dipende dall’equilibrio tra obiettivi del capitale finanziario e obiettivi del capitale industriale (conoscenze e competenze tecniche applicate in primo luogo), o qualcuno inizia a dare forza e potere a quest’ultimo, oppure il rischio di declino della produttività nel sistema diventa più alto.

Lasciare al solo management nominato dai soci finanziari, il compito di costruire tale equilibrio è uno schema desueto, che un sindacato moderno dovrebbe mettere in discussione, non solo per tutelare meglio le condizioni di lavoro dei propri iscritti, ma anche per contribuire ai tavoli di concertazione e alla gestione positiva delle ristrutturazioni, soprattutto in casi (tipo GKN) nei quali la chiusura di stabilimenti è dettata da logiche che non c’entrano nulla con il progresso economico e sociale del paese.

I sindacati tedeschi e giapponesi hanno investito molto sulla qualificazione dei rappresentanti del lavoro e del capitale industriale. Non si può dire altrettanto del sindacato italiano. E dunque non stupisce che il nostro apparato sindacale si trovi oggi in estrema difficoltà nel gestire non solo le crisi e le ristrutturazioni delle grandi aziende (con golden share statale), ma anche i tavoli di confronto con il governo.

Alla vigilia di un nuovo possibile patto, sollecitato da Draghi e da Confindustria, sarebbe utile riprendere il filo del discorso interrotto nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica e dare all’Italia una nuova costituzione, nelle grandi come nelle piccole imprese.

Paolo Gurisatti e Giuseppe Surrenti

Leave a Reply