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14 Luglio 2021 ~ 0 Comments

Il lavoro che manca (a Nordest)

I demografi sono gli unici scienziati sociali che riescono a fare previsioni e calcoli relativamente corretti, in questa fase post-(middle) pandemica. Economisti e sociologi sono invece in ritardo nell’interpretare fenomeni emergenti, come le nuove difficoltà a trovare lavoro e lavoratori.

Gli scienziati sociali tendono a leggere i dati alla luce di modelli che presumono duraturi, ma non reggono alla prova di un momento di crisi e cambiamento sociale, come quello attuale. A Nordest, ad esempio, la forbice tra domanda e offerta di lavoro non è l’esito di una sorta di rifiuto dei giovani a seguire le orme dei padri. E’ vero che non si trovano lavoratori disponibili a occupare le posizioni professionali più qualificate in manifattura (skill shortage) e anche quelle ordinarie, di servizio. E un fenomeno simile è segnalato nelle imprese turistiche che, dopo un anno di lockdown, hanno perso buona parte dei dipendenti ad alta professionalità, e stentano a trovare personale ordinario, come i camerieri.

I demografi, come Giampiero Dalla Zuanna, sostengono tuttavia (dati alla mano, sulle nascite e sulle migrazioni) che il sistema produttivo del Nordest sta diventando insostenibile, perché non è più in grado di attirare giovani da altri territori italiani e da altri paesi.

La forbice domanda-offerta di lavoro tende ad aprirsi, questa volta, per la mancanza strutturale di cittadini, di qualsiasi tipo. E’ una questione di numeri, non di assetto formativo o atteggiamento sociale.

Certo esiste anche il rifiuto del lavoro manuale. C’è una certa resistenza a cercare occupazione nella manifattura, da parte delle giovani generazioni autoctone. Il drastico spostamento verso carriere di istruzione lunghe, licei più università, e lo sviluppo galoppante dei servizi, anche a costo di un basso valore aggiunto, sono il segno evidente che i giovani del Nordest (incalzati dalle famiglie) inseguono prospettive di vita assai diverse da quelle dei genitori, protagonisti del boom manifatturiero degli anni ’80 e ’90.

Tuttavia il problema principale è il rallentamento nei flussi migratori verso le regioni del Nordest, che si associa all’uscita di una parte dei giovani, insoddisfatti delle prospettive territoriali.

I demografi hanno ragione. Servono idee e politiche nuove. Se i CFP (Centri di Formazione Professionale) si riempiono di giovani immigrati, pochi peraltro, mentre gli ITS (Istituti Tecnici Superiori), nonostante la qualità del corpo docente e delle prospettive occupazionali, faticano a trovare iscritti, vuol dire che il problema è quantitativo, non solo sociale ed economico.

Siamo a un punto di svolta, alla fine di un modello di sviluppo. Economisti e sociologi devono cambiare occhiali, se vogliono contribuire alle scelte politiche e amministrative. Devono ascoltare i demografi.

© Quotidiani Gruppo Editoriale L’Espresso (14 Luglio 2021)

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