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29 Gennaio 2021 ~ 0 Comments

La scomparsa del Nord

Nello specchio della crisi, del governo Conte 2, si riflette un’immagine dell’Italia assai diversa da quella a cui eravamo abituati. Nella discussione sul Recovery Fund, che ha dato l’innesco alla rottura della maggioranza, non c’è alcun riferimento ai motori che possono far decollare il paese e in particolare al sistema delle imprese collocate nel Nord.

Fino a ieri i distretti industriali del Veneto e dell’Emilia Romagna, le concentrazioni produttive di Milano, capitale della Moda, e di Torino, capitale dell’auto e del design industriale, attiravano l’attenzione dei governi nazionali ed europei come fucine di innovazione e sviluppo per tutto il paese.

Il Nord, come punta avanzata del sistema nazionale, era preso a riferimento da molte regioni del Sud e dai coordinatori dei progetti finanziati dall’Unione Europea, nella prospettiva della convergenza. Vi ricordate il dialogo avviato dai distretti veneti con le aree industriali pugliesi? Vi ricordate il dibattito sui patti territoriali e sulla necessità di adottare modelli di crescita basati sul coinvolgimento dei cittadini e degli imprenditori locali? Vi ricordate le discussioni sui modelli di industrializzazione diffusa e sulle necessità di costruire una via italiana allo sviluppo?

Tutto questo è improvvisamente scomparso. Non solo per la scelta politica della Lega, di abbandonare il Nord come base fondante di un progetto federalista, ma anche e soprattutto per la scomparsa di un ceto politico capace di rappresentare la forza dei modelli industriali del Nord.

I governi che si sono succeduti negli ultimi dieci anni hanno tutti dato per scontato non solo che non esiste un modello di riferimento (tanto mento quello dei distretti produttivi e del capitalismo dal volto umano del Nord), ma soprattutto che i territori del Mezzogiorno devono essere sostenuti da impegnativi flussi di spesa pubblica a prescindere dai risultati.

Il paese che i “costruttori” di Conte si immaginano è un paese fatto di motori pubblici nazionali (Autostrade, ILVA, Alitalia, RFI, ANAS e la PPAA) e di investimenti a pioggia su funzioni ritenute utili a mantenere il consenso e il benessere nei territori (sanità, scuola, ricerca, infrastrutture materiali e digitali), ma senza più alcun ruolo affidato alla creatività e produttività (magari con modelli diversi) delle comunità regionali e delle imprese private.

Il Recovery Plan, che nell’aneddotica popolare dovrebbe svolgere funzioni di modernizzazione analoghe a quelle del Piano Marshall nel dopoguerra, in pratica non ruota attorno a nessun modello di ri-organizzazione dell’economia e della società, tantomeno mutuato dal Nord.

E allora è lecito chiedersi: dove sono finiti i “costruttori” del Nord? c’è qualcuno capace di mettere in campo una mossa del cavallo che scombini i giochi del non governo di Roma?

© Quotidiani Gruppo Editoriale L’Espresso (29 Gennaio 2021)

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