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23 Agosto 2020 ~ 0 Comments

Investire sull’immateriale

Per tre quarti di secolo gli italiani hanno investito sul mattone, su macchine utensili e mezzi di trasporto. Cose concrete.

Hanno costruito paesi nuovi a fianco di vecchi borghi di sasso. Hanno investito sulle seconde case, a guisa di chalet in montagna, di dammuso sulle coste rocciose del Mezzogiorno, di condominio lungo le spiagge adriatiche. Hanno asfaltato strade collinari, sviluppato la rete autostradale e perfino cambiato verso alle ferrovie: da servizio di integrazione e diffusione dello sviluppo, a infrastruttura metropolitana, funzionale al ruolo trainante di alcune grandi città del Centro-Nord.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti, ma non basta. Oggi bisogna rinnovare la base produttiva e trovare nuove riserve di valore, che non siano mattoni di scarsa qualità e titoli tossici.

Per tre quarti di secolo industria e turismo sono stati due motori potenti, che hanno guidato il Paese, sia nei distretti, che nei luoghi di vacanza. E hanno trascinato il settore immobiliare e delle costruzioni. E’ sbagliato pensare che quest’ultimo possa oggi diventare un motore autonomo della ripresa e dello sviluppo futuro. Certo, c’è ancora molto da fare in termini materiali e infrastrutturali. La manutenzione del territorio e soprattutto la riconversione energetica degli edifici sono passaggi obbligati. Così come il tunnel sotto lo Stretto di Messina o la distribuzione della banda larga.

Tuttavia appare chiaro che il modello di sviluppo futuro ha bisogno di altri investimenti, soprattutto immateriali, che integrino e diano forza al patrimonio di competenze tecniche e di servizio accumulate finora. E non si tratta neppure di spostare la nostra economia verso il mercato mobiliare o le piattaforme digitali. Su questo tipo di “immateriale” sono più forti altri.

Noi italiani dobbiamo imparare a investire sui beni che accrescono la reputazione e l’attrattività del nostro patrimonio cognitivo. Che è industria e turismo, in primo luogo, ma anche stile di vita, relazioni di lavoro, servizi a elevato valore aggiunto, per le filiere globali.

La Moda, ad esempio, è un bene immateriale “italiano” senza il quale non solo una parte del sistema produttivo, ma anche buona parte del patrimonio immobiliare di Firenze e Milano, non avrebbe alcun valore. Slow Food, è un altro esempio, senza il quale la nostra bio-diversità territoriale, oltre che alimentare, varrebbe molto meno.

Come si fa? Come si piega il Next Generation Fund a questo obiettivo?

Non con lo statalismo, il moralismo sui 600 Euro e il populismo del “prima noi anche se non sappiamo niente”. Si fa con una società civile che esce dal rancore e dall’ambizione signorile e punta sui cervelli, investe sui figli e sulle università eccellenti, sugli ITS (Istituti Tecnici Superiori) e sulle botteghe dell’arte che danno colore e sapore alle nostre industrie.

© Quotidiani Gruppo Editoriale L’Espresso (23 Agosto 2020)

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