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24 Maggio 2020 ~ 0 Comments

La depressione non è lo scenario peggiore

MDA

Paul Krugman, editorialista keynesiano del New York Times, ha recentemente proposto alcune riflessioni sulla Fase 2 degli USA che illuminano il nostro cammino.

Tutti i paesi occidentali, Stati Uniti compresi, hanno deciso di forzare i tempi delle riaperture, nonostante i rischi di una seconda ondata di contagi, per dimostrare che la democrazia di mercato è più forte della pandemia, e reagisce meglio di un regime autoritario (sottointeso quello cinese). Oltre il lockdown.

La fiducia nell’autonomia dell’individuo responsabile, come innovatore dal lato dell’offerta, e come consumatore dal lato della domanda, è alla base dell’esperimento sociale in atto, in aperto contrasto con le indicazioni di molti esperti sanitari e dei tanti che chiedono uno Stato dirigista, che definisca nel dettaglio il grado di libertà e le regole di comportamento dei cittadini.

Krugman sostiene che la riapertura generalizzata è una scelta eccessivamente rischiosa, perché negli Stati Uniti i sussidi di disoccupazione stanno già facendo bene il loro lavoro (come stabilizzatori automatici del ciclo economico) e pur arrivando in ritardo, perché gestiti dai singoli stati e non dal governo federale (esattamente come la CIG in deroga qui da noi), generano impulsi positivi sulla domanda aggregata. Pur in assenza di norme anti-licenziamento, il tasso di disoccupazione USA sembra essersi fermato alla soglia del 12% (20% reale), colpendo i lavoratori precari e di bassa qualificazione, ma non le fasce centrali del mercato del lavoro, il ceto medio. Questo aiuta la resilienza dei consumi e la fiducia delle famiglie, mentre il sistema dei sussidi alle PMI resta nel caos (esattamente come in Italia) e non rappresenta, per il momento, una leva fondamentale di ripresa.

La posizione di Krugman deriva non solo dal suo attaccamento al paradigma keynesiano, ma anche e soprattutto dalla sua avversione culturale al mito del libero mercato e alla prospettiva di una depressione profonda che, a quel mito, e alla sua influenza sulle decisioni dei governi occidentali, è, a suo avviso, collegata.

La riflessione di Krugman evoca due scenari possibili: una depressione controllata, all’interno della quale possa maturare, un po’ alla volta, una strategia di cambiamento sistemico paragonabile al New Deal rooseveltiano oppure il frettoloso ritorno, dapprima incoraggiante, ma poi di nuovo problematico, al business “as usual”, alle strutture istituzionali neo-liberali che da trent’anni a questa parte guidano il comportamento delle persone, oltre che le decisioni dei leader politici occidentali.

Diciamo subito che l’unico scenario, a nostro avviso, ragionevole, non è il secondo.

E non perché abbiano ragione gli economisti keynesiani (come Krugman) contro i monetaristi-mercatisti, quanto perché la ri-conferma della fiducia nel sistema, oggi dominante, porta con sé una “carenza” di motivazione a risorgere/ricostruire/cambiare e soprattutto un rischio di “delusione” (depressione) individuale e collettiva, che potrebbe diventare il vero limite sociale allo sviluppo. Esattamente come aveva detto Keynes: di fronte al fallimento del sistema liberista serve un’idea nuova.

Durante la Grande Depressione, e lo shock esterno della Seconda Guerra Mondiale, la delusione dell’individuo e della libera iniziativa hanno raggiunto livelli estremi. E soltanto grazie a cambiamenti radicali nel contesto istituzionale e statale, grazie al New Deal e al Piano Marshall, i cittadini europei e americani hanno ripreso a mobilitarsi vent’anni dopo il ‘29, a impegnarsi in prima persona, realizzando un miracolo economico e sociale di proporzioni gigantesche. Senza il “sogno” di una grande trasformazione (per parafrasare il noto saggio di Polanyi), i popoli del mondo non sarebbero riusciti a investire, risparmiare, mobilitare la propria iniziativa lungo il sentiero di sviluppo inedito dei capitalismi nazionali. E non avrebbero prodotto la traiettoria di ricostruzione che li ha portati, in pochi anni, a sanare le ferite umane e culturali lasciate dal nazismo e dal fascismo in Europa o, anni dopo, a imboccare la strada dell’imitazione dello stato regolatore (a Sud del mondo), contro il mito dello stato dirigista ed estrattivo, coloniale.

La restaurazione del sentiero neo-liberale, e della società dei consumi a esso collegata, ha interrotto quel percorso per “consunzione interna” ed è arrivata al capolinea all’inizio di questo secolo, quando il Rapporto Bruntland ha iniziato a segnalare i primi seri problemi di sostenibilità. Da quel momento in poi, fino il tonfo clamoroso del 2008, l’economia dei capitalismi nazionali non è più stata capace di mobilitare i cittadini, nemmeno nella formula avanzata del mercato globale inter-nazionale, promossa dal G5, poi dal G8 e infine dal G20 e dal WTO. Non ha alimentato né la crescita e né l’autonomia delle persone, con lo stesso impeto delle ricostruzioni nazionali del dopoguerra e del catch-up dei paesi emergenti (BRIC), entrambi perseguiti su basi sostanzialmente keynesiane.

Per questa ragione una ripresa “as usual”, un ritorno, più o meno rapido, alla “normalità” (liberista) pre-Coronavirus appare una via d’uscita debole dalla crisi attuale, perché intrappola i cittadini in uno schema perverso (schema Ponzi), incapace di generare fattori di cambiamento reale, con la medesima magnitudo di un New Deal e di una Guerra Mondiale, in termini di impatto e distruzione creatrice.

La società occidentale è ormai secolarizzata al mercato. Non crede più nei “miti eterni della patria e dell’eroe” (come diceva Guccini), non è più disposta a mobilitarsi all’interno dell’organizzazione gerarchica (un esercito o una grande impresa fordista), ormai diffida anche dello stato social-democratico (ordo-liberalista) che pianifica la vita delle persone attraverso processi codificati di formazione, lavoro, consumo. Sta cercando qualcosa di nuovo, oltre lo stato e oltre il mercato. Ma non trova lo stimolo giusto. Il rischio maggiore che corre è un’illusorio ritorno a breve termine dello status quo, secondo lo schema incagliato dell’affluent society (già evidenziato da Galbrighth) o, peggio, della società signorile/parassitaria di massa (recentemente indicato di Ricolfi). Un ritorno a “normalità” di questo tipo non può che generare delusione, de-motivazione e sfiducia. Per non citare i conflitti che la disuguaglianza crescente, la povertà di massa, la continua erosione (soprattutto negli USA) di beni pubblici essenziali come l’educazione, la sanità, un ambiente sano e sostenibile nel tempo, tendono a generare.

Ecco perché la prospettiva di una profonda depressione è non solo inevitabile, ma anche auspicabile. Tanto che grandi operatori come Warren Buffet e Blackrock sembrano inclini a scommettere su questa prospettiva, annunciando piani di disinvestimento straordinari, lungo la linea dell’economia “as usual”, e opzioni di rilancio invece nell’economia green e nello sviluppo sostenibile.

La maggioranza dei commentatori occidentali (esperti di storia e filosofia) esprime una sorta di paura patologica della depressione. Teme che essa apra la strada al ritorno di nuovi totalitarismi (di destra, sovranisti e protezionisti) o possa provocare conflitti sociali e reazioni individuali analoghe a quella di Michael Douglas in “Un giorno di ordinaria follia”.

Dal nostro punto di vista, invece, la depressione prossima ventura può produrre effetti positivi. Anche l’eventuale arrivo di una seconda ondata di infezioni (evocata perfino da Draghi nel suo intervento sul Financial Times) o di un grande cataclisma collegato al Climate Change, possono rappresentare uno shock sufficiente a dimostrare che le istituzioni del mercato “as usual” non riescono a innescare processi di cambiamento tempestivi e che nuovi strumenti di intervento, analoghi a quelli immaginati da Keynes molti anni fa (proprio per ridurre l’imprevedibilità del mercato globale), devono essere studiati (bisognerebbe rileggere il suo saggio del 1930, Possibilità economiche per i nostri nipoti).

Il futuro è nelle nostre mani. In particolare delle giovani generazioni, dei nuovi migranti della classe creativa o dei rifugiati che fuggono dalle guerre e dalla fame, in sistemi oltremodo desueti come i regimi autoritari del Medio Oriente e del continente africano. Questi soggetti emergenti sono più sensibili alla crisi del sistema globale, perché ne soffrono le conseguenze peggiori, e hanno già iniziato a mobilitarsi in modo straordinario, attraverso un impegno personale estremo, di fuga dalla gabbia del vecchio mercato e dello Stato nazionale estrattivo, non amano le federazioni inter-nazionali e le agenzie globali prive di competenza. Forse, la loro mobilitazione riuscirà a dare un motore nuovo allo sviluppo globale, lungo sentieri che nulla hanno a che fare con lo scambio ineguale, la competizione tra stati e le contraddizioni dei sistemi elettorali e costituzionali basati democrazia rappresentativa.

Ben venga dunque la Seconda Grande Depressione, indotta dall’irrilevanza dei governi occidentali. Ci saranno morti e feriti, come durante la prima, e molti disoccupati, ma almeno i difetti del sistema di regolazione prevalente diventeranno evidenti e insostenibili. Le giovani generazioni saranno motivate a mobilitarsi, contro di esso, su vie innovative di organizzazione dell’economia e della società, oltre Keynes, oltre l’ordo-liberalismo, oltre lo stesso comunismo cinese, verso orizzonti paragonabili alla seconda e alla terza rivoluzione industriale (Piano Marshall e Second Industrial Divide di Sabel e Piore).

Nel lungo periodo saremo tutti morti, diceva Keynes. Ma se ne doleva, perché sapeva che il futuro si costruisce, non solo inseguendo obiettivi di breve termine, ma anche avendo obiettivi ambiziosi (sogni) a lungo termine. In molti si sono mobilitati per realizzare i suoi sogni di lunga durata, dopo di lui, con impatti rilevanti sul sistema economico e non solo. Era nel giusto quando diceva che il libero mercato ha molti difetti e può funzionare soltanto grazie a uno stato forte e intelligente, flessibile.

A livello globale, attualmente, non abbiamo né una prospettiva di lungo termine (sviluppo sostenibile), né un sistema istituzionale (uno stato forte e intelligente) in grado di alimentare la fiducia e mobilitazione. Solo la nuova depressione post-Coronavirus può dunque salvarci, innescando una reazione inedita, sia pur caotica, tra i giovani. Quelli che studiano.

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