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03 Aprile 2020 ~ 0 Comments

Alla ricerca di un “vaccino sociale” per combattere il coronavirus

MDA

Il contributo di ASVESS (Associazione Veneta per lo Sviluppo Sostenibile) al dibattito di ASVIS (Alleanza per lo Sviluppo Sostenibile) sul goal 3 (Salute e Benessere) – Pubblicato sulla Newsletter ASVIS – 3 aprile 2020

Premessa

L’emergenza Coronavirus aiuta a leggere l’Agenda 2030 dell’ONU con una chiave nuova. Il mondo deve affrontare “tutti” gli obiettivi dell’agenda con lo stesso spirito con cui sta affrontando la pandemia. Abbiamo poco tempo per definire strategie di gestione dei 17 ambiti critici, per la comunità internazionale, e dobbiamo accelerare il processo di valutazione delle soluzioni avanzate e di condivisione delle medesime su scala globale.

La capacità di confrontare (con il codice giusto e in tempi ridotti) esperienze diverse, in territori “diversi”, è un elemento fondamentale di condivisione dell’Agenda 2030. Questo NON è successo in occasione della crisi da Coronavirus e l’OMS ha dimostrato di essere un’organizzazione impotente, incapace di avere la meglio sugli stati nazionali.

Questa capacità è mancata anche in Italia, per colpa di pregiudizi atavici e linee di frattura politica e territoriale che impediscono la coesione e cooperazione sociale e istituzionale a livello adeguato.

Con il presente contributo (come ASVESS) intendiamo partecipare al confronto con ASVIS (la nostra casa madre) non solo all’aggiornamento dell’impostazione attuale (vedi sito – salute e benessere come problema dei paesi arretrati, assenza di dibattito sul Coronavirus), ma anche all’avvio di una nuova stagione di rapporti tra “centro e periferia”.

Veneto e Lombardia

La nostra valutazione parte dal confronto tra Veneto e Lombardia. Nella gestione della crisi da Coronavirus le due regioni si sono trovate, loro malgrado, a svolgere la funzione di apripista in un territorio sconosciuto.

Tale “territorio” può essere definito così, dal punto di vista della sostenibilità: una crisi epidemica, non può essere affrontata solamente con la Linea Maginot del servizio ospedaliero; deve essere affrontata a livello sociale; un’epidemia si vince con il “vaccino sociale” e non solo con le macchine, la tecnologia e le competenze del personale sanitario; il “vaccino sociale” consente ai cittadini di capire, in tempo, perché il lock-down deve essere accettato (come medicina amara, ma salutare) e perché gestito a livello “popolare”, con la comunicazione del sindaco, e non solo a livello di professionale, dai tecnici delle USL.

Questo territorio è in gran parte sconosciuto, perché la nostra sanità (come tutta quella occidentale) è pervasa dall’ideologia della tecnica e dell’innovazione, e della sala operatoria come panacea di tutti i mali. La lunga mancanza di problemi igienico-sanitari ha diffuso, da noi come in altri paesi dell’Occidente, mode culturali come quella dei NoVax che impediscono il risultato, aumentano l’insostenibilità sanitaria nel lungo periodo. Nella sanità italiana, in particolare, la delega alle regioni ha fatto scattare un modello di ristrutturazione focalizzato sui centri di eccellenza e non sui presidi territoriali. E’ prevalsa l’idea che la prevenzione, il monitoraggio delle patologie territoriali non fosse più necessario da noi e che il medico di territorio dovesse essere sostituito dalle associazioni di volontariato e dall’assistenza sociale (nei comuni) e non invece affiancato da personale esperto in epidemie, home-care, monitoraggio delle patologie innovative, ecc. insomma “cura del territorio”.

In occasione dell’attacco da Coronavirus il nostro sistema sanitario si è fatto trovare con la guardia abbassata, senza piani di contenimento dell’epidemia studiati e sperimentati in anticipo, con poco personale addetto alla cura delle malattie infettive e alla loro prevenzione.

Il radicamento della cultura liberale, a sua volta, e la prevalenza dei principi di libertà personale su quelli del condizionamento sociale, hanno inoltre impedito, nei primi due mesi dell’epidemia, la condivisione tempestiva di provvedimenti che limitano il movimento delle persone e la libera iniziativa.

Quanto accaduto nel Veneto e in Lombardia, regioni accomunate da un medesimo background economico, sociale e anche politico, ma dotati di una diversa distribuzione delle competenze medico-sanitarie e di presidio del territorio, evidenzia differenze importanti, che possono animare la discussione sui modelli più avanzati di reazione “sociale” nei confronti del virus e, forse, la produzione di un “vaccino sociale” trasferibile in altre regioni.

Il Veneto mostra livelli di diffusione del Coronavirus (si vedano le tabelle in appendice) e di mortalità ampiamente inferiori a quelli lombardi. Perché?

Prima di presentare una serie di ipotesi in risposta a questa domanda, vorremmo mettere in evidenza gli elementi comuni dei due territori (quelli di tipo strutturale).

  1. Cultura del lavoro e cittadinanza di squadra – In Lombardia e nel Veneto l’etica del lavoro e la cittadinanza di “distretto” o di filiera sono prevalenti (in tutti gli strati sociali). Questo significa che i cittadini si muovono seguendo gli ordini del proprio ambiente economico e sociale più che gli ordini della politica.
  2. Politica dell’autonomia – In Lombardia e Veneto la logica dell’autonomia federalista è prevalente, così come l’amministrazione leghista e la rappresentanza delle categorie economiche di territorio. Anche la Protezione Civile ha raggiunto livelli di eccellenza, a livello regionale e locale.
  3. Apertura alle relazioni internazionali – In Lombardia e Veneto sono collocate imprese globali (della manifattura, del turismo e della logistica) che intrecciano relazioni con tutto il mondo e portano a casa reddito da esportazione, come non accade in altre regioni italiane.
  4. Buon sistema sanitario – In entrambe le regioni è presente un sistema di servizi sanitari e sociali di eccellenza, con l’unica e non irrilevante differenza che nel Veneto prevale la sanità pubblica, mentre in Lombardia c’è una consistente presenza della sanità privata. Nel Veneto inoltre hanno forse resistito più che in Lombardia i presidi territoriali, per la specifica conformazione demografica del territorio e l’assenza di grandi comuni, come Milano.
  5. Buon sistema universitario integrato con le cliniche ospedaliere. La Clinica Universitaria di Padova o il San Raffaele sono centri di eccellenza mondiale nella gestione della sanità.
  6. Sistema economico fondato sui “distretti” e sulle imprese a rete – Lombardia e Veneto compaiono sulle mappe dei ricercatori che all’inizio degli anni ’90 scrutavano i diversi paesi del mondo per trovare modelli di industria più interessanti di quello fordista. Porter, Ohmae, Krugman…

Ed ecco la serie di ipotesi esplicative delle differenze registrate, tra i due sistemi territoriali, durante i primi mesi di Coronavirus.

Lock-down

In Veneto il primo contagio è avvenuto a Vo’ Euganeo (una piccola comunità marginale rispetto ai distretti del vicentino e del trevigiano). Il lock-down ha funzionato (dopo qualche piccola incertezza iniziale) ed è servito da campanello di allarme (vaccino sociale) per altri comuni del territorio. Dopo pochi giorni Zaia, inizialmente contrario a chiusure troppo ampie, ha cominciato a dire che “tutto il Veneto è zona rossa” (ha anticipato l’evoluzione del virus e non si è limitato a in-seguirla).

In Lombardia il primo contagio è avvenuto a Codogno (nel cuore pulsante del maggior distretto logistico del Nord Italia). Il lock-down ha funzionato nel singolo comune (Codogno), ma non è stato esteso al distretto. La medesima disattenzione è intervenuta nel caso di Bergamo e Brescia, nelle valli dei distretti industriali meccanici. Le autorità locali hanno agito secondo la logica dei confini amministrativi e non dei confini sociali (delle filiere o supply chain o sistemi di relazioni produttive che dir si voglia). Si sono “dimenticate” di chiudere le vie di fuga del contagio, lasciate aperte dai rapporti di lavoro. Fontana ha pensato a zone rosse successive, in-seguendo la diffusione del virus, senza capire l’origine “sociale ed economica” del contagio.

In entrambe le regioni l’etica del lavoro, la forza delle rappresentanze sociali dei distretti e delle piccole imprese hanno avuto la meglio sulla logica sanitaria del lock-down. Tuttavia il Veneto è stato più fortunato, perché i confini amministrativi di Vo’ coincidevano con un distretto economico e sociale chiuso (cluster), mentre la Lombardia ha sofferto di più, perché ha lasciato aperte linee di comunicazione e contagio in distretti aperti sul territorio ed è stata costretta a in-seguire l’epidemia (cluster aperti).

Entrambe le regioni hanno avuto lo svantaggio della “sorpresa” (non hanno avuto il tempo materiale per prepararsi), ma sono partite per prime e hanno sviluppato anticorpi (sociali) propri, attraverso l’impegno dei governatori, dei loro consulenti scientifici e di altri attori del territorio.

Hanno fatto l’errore fondamentale di confidare troppo nella linea Maginot della tecnica ospedaliera e di non avviare in tempo una strategia di distanziamento sociale. Per fare questo avrebbero dovuto coinvolgere subito gli altri agenti del territorio e soprattutto i sindaci (che hanno la fiducia dei cittadini e sono facilmente raggiungibili da tutti) o i leader dei distretti produttivi. Invece hanno agito lungo le linee di comando gerarchico delle USL e dei prefetti, che appartengono al territorio, hanno relazioni strette e quotidiane con i sindaci, ma non sempre riescono a comunicare, con il codice giusto, alla popolazione.

Check-up dei positivi

In Veneto si è scelta la strada del “tamponamento di massa” per ragioni che derivano dai suggerimenti degli esperti (quei pochi disponibili e competenti in materia di malattie infettive). Sia Mantoan, che Crisanti (il primo dirigente della Regione in Sanità, il secondo virologo dell’Università di Padova) avevano esperienze pregresse in materia di epidemie o problemi sanitari distribuiti nel territorio. Mantoan ha affrontato il problema dell’inquinamento dell’acqua (da PFAS) nell’area del vicentino in cui è nato, lavora ed è residente. E proprio in quella occasione ha imparato che uno screening di massa, sui cittadini potenzialmente colpiti dall’inquinamento, è efficace. Crisanti è collegato a gruppi di ricerca internazionali e si è ispirato al modello coreano, andando in cerca dei positivi, tracciando tutti i loro contatti e isolandoli per un mese. Nella sostanza, ha immaginato un modello di quarantena adatto all’Europa dell’età moderna, in versione 2.0. Un contributo importante è venuto anche dal prof. Palù, oggi in pensione, impegnato in passato su fronti cruciali per lo sviluppo del pensiero scientifico. Attraverso questa rete di relazioni, la Regione Veneto è arrivata ad autorizzare un’indagine di piccola scala, nel comune di Vo’, che ha offerto elementi utili a ragionare su scala più vasta. Poi, in pratica, un “tamponamento di massa” vero e proprio non c’è mai stato, per ragioni tecniche e operative. Tuttavia la tendenza, anche in numero di campioni effettuati, è molto chiara. Si vedano i dati pubblicati al Corriere della Sera del 2 aprile 2020.

In Lombardia si è scelta la strada indicata dall’OMS, vale a dire il “tamponamento” dei positivi e dei pazienti sintomatici. Galli si è allineato subito con Ricciardi e con la medicina mainstream (quella che si muove nel solco delle pubblicazioni accreditate), attenendosi alle procedure “standard” di riferimento. Non si è avventurato sul fronte della ricerca “estrema” come Crisanti. In Lombardia non era presente una esperienza pregressa in situazione di conflitto/complessità sociale, come accaduto nel Veneto per i PFAS. E gli esperti lombardi, hanno dovuto fare riferimento all’assessore regionale, come mediatore tra le diverse componenti della sanità regionale: quella pubblica, quella privata e quella “accademica”.

In entrambe le regioni la catena di comando interna al sistema sanitario ha funzionato, ma era “più stretta” nel Veneto e “più lasca” in Lombardia. Sembra inoltre che il “tamponamento di massa” abbia offerto al Veneto molte più informazioni sulla diffusione del contagio e spostato l’attenzione dei responsabili sanitari sull’importanza del territorio e di un modello di azione di larga scala. E soprattutto sull’esigenza di “prevenire” la fase acuta e non di “in-seguirla” quando è troppo tardi, in ospedale. La Lombardia invece, proprio perché dotata di strutture ospedaliere (pubbliche e private di primordine) ha deciso di “aspettare” a tamponare i malati in fase più avanzata, per “eccesso di confidenza nella propria capacità tecnologica, rinunciando a strategie di prevenzione, accettando di inseguire il virus in ospedale (con la tecnologia) e facendo diventare i presidi ospedalieri un trappola mortale, per i medici e per i malati.

La strategia di check-up dei positivi ha ampliato le occasioni di contagio in Lombardia e frenato la diffusione del Coronavirus nel Veneto. Anche in questo caso il Veneto è stato più fortunato della Lombardia, perché si è trovato a muoversi in un cluster chiuso (all’inizio) e ha sfruttato le proprie risorse interne con maggiore coordinamento e disinvoltura rispetto ai condizionamenti esterni (OMS, Governo, Associazioni di Categoria e altro di simile).

Assistenza a domicilio e in ospedale

Proprio la differenza di struttura nei servizi sanitari (grande presenza di strutture private in Lombardia e prevalenza di strutture pubbliche, appena ristrutturate con il piano “Azienda Zero”, nel Veneto) ha introdotto un elemento differenziale forse decisivo nella lotta al Coronavirus (si veda il frammento del Corriere della Sera di Antonio Polito, risalente alla metà marzo).

In Lombardia, la presenza di strutture private, ha convinto i “generali” (dirigenti regionali) che fosse meglio prestare assistenza ai malati Covid19 “dentro” il sistema ospedaliero e non “fuori” (a domicilio). Questa scelta non è stata determinata solo dalla dimensione (superiore a quella di tutte le altre regioni) del contagio, ma anche da una strategia di intervento “ortodossa”. Con un po’ di cinica cattiveria, si può anche pensare che la sanità privata lombarda abbia esagerato le proprie disponibilità e capacità di reazione, invitando la Regione a mandare i pazienti, in eccesso, per obiettivi non strettamente legati al successo sanitario dell’operazione.

Nel Veneto, l’essenza di strutture ospedaliere private, ha “costretto” la Regione a cercare altre strade. Ad esempio: il coinvolgimento di medici di base e di altri presidi distribuiti nel territorio e la somministrazione di farmaci ospedalieri a domicilio.

Non abbiamo elementi sufficienti a descrivere come si sono mossi, nelle due regioni, i medici di base, ma, a parità di condizioni, la consegna lombarda di inviare i pazienti al pronto soccorso prima possibile, e la consegna veneta opposta, di seguirli a casa, hanno sicuramente concorso alla differenza di strategia sanitaria, di impatto sociale e di risultato (in termini di decessi).

Il Veneto è stato fortunato anche da questo versante, poiché l’infezione accaduta nell’ospedale di Schiavonia, ha indotto un “vaccino sociale” negli addetti ai lavori, abbastanza presto, convincendoli ad evitare le strutture ospedaliere, come luogo principe del contagio, per impraticabilità del campo.

Conclusioni

Il confronto tra Veneto e Lombardia ci porta ad alcune riflessioni utili, non solo alla prosecuzione della guerra al Coronavirus con altri mezzi (poiché la guerra è tutt’altro che vinta e conclusa!), ma anche alla possibilità di produrre un “vaccino sociale” che serva ad altri territori dell’Italia e del mondo.

  1. La battaglia decisiva al Coronavirus si combatte nella società e non solo nelle strutture sanitarie (Linea Maginot desueta e da ripensare in ragione del ritorno delle malattie infettive).
  2. La diversità di strutture sociali e sanitarie non può essere trascurata. Anzi è proprio perché ogni territorio ha un proprio “metabolismo” che la cura deve essere “personalizzata”.
  3. Il confronto tra Veneto e Lombardia mostra differenze di comportamento negli agenti coinvolti nell’azione di contrasto all’epidemia, ma anche altre possibili combinazioni, migliori di quelle finora praticate.
  4. Solo per caso il Veneto si è trovato (finora) in condizioni migliori della Lombardia e un investimento serio sulle risorse e le competenze che servono a gestire emergenze sanitarie territoriali sarà comunque necessario, in futuro, affiancando alla medicina specialistica e tecnologica (da ospedale) alcune funzioni di medicina generale e health-planning che sono state abbandonate.
  5. Oggi le risorse per investire sulla sanità sono, in Italia, di quasi totale competenza delle regioni. Il rimpallo di responsabilità tra autorità centrali (OMS, Protezione Civile Nazionale, Governo) e autorità regionali non ha senso di esistere. Tutte le regioni sono “colpevoli” di aver abbassato la guardia nei confronti delle malattie infettive, a prescindere dal governo nazionale.
  6. Il confronto con esperienze internazionali (come il caso Cinese o quello Coreano) può produrre ulteriori stimoli di riflessione, per gestire la crisi sanitaria in Italia e in Europa nei prossimi mesi e soprattutto alla ripresa delle attività. Nulla tornerà come prima e la ricerca di soluzioni affidabili al Goal 3 dell’agenda dell’ONU dovrà includere pesanti aggiustamenti nell’emisfero Nord del pianeta.

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