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24 Marzo 2020 ~ 4 Comments

Bisogna prendere la Cina sul serio

Sintesi

La crisi indotta dall’epidemia da Corona Virus sta ponendo sfide del tutto nuove ai sistemi sanitari ed economici dei paesi occidentali.

Durante le ultime settimane, tutti questi paesi, e in particolare l’Italia, hanno sottostimato la dimensione dei cambiamenti necessari per far fronte all’emergenza. Tutti hanno riconosciuto tardi l’importanza del cosiddetto “distanziamento” sociale, come arma fondamentale nella guerra al virus, la necessità di introdurre misure draconiane per evitare il contagio e la cascata di conseguenze che dobbiamo attivare nell’economia e nella società.

Al contrario la Cina, “vaccinata” grazie alle esperienze sviluppate in occasione dell’influenza aviaria e della SARS, dopo un iniziale periodo di sbandamento, ha trovato il modo di reagire rapidamente e in modo efficiente all’epidemia, riuscendo a ridurre l’esplosione dei contagi e a confinare gli effetti peggiori a un’area delimitata del paese. Questo è successo non solo perché i cinesi sono preparati, culturalmente, ad accettare il distanziamento come tecnica terapeutica, ma anche perché un intervento d’autorità dello Stato non li ha sorpresi.

In Europa e negli Stati Uniti non è stato così.

Esplorare dunque le differenze di comportamento di sistemi molto diversi tra loro, in ragione della struttura narrativa che guida le decisioni dei dirigenti e dei cittadini, può essere utile.

Scopo dell’analisi è trarre ispirazione dall’esperienza cinese, per costruire modelli di reazione più efficienti in Occidente.

La durata e la profondità della crisi stanno sollecitando modelli di azione e paradigmi totalmente nuovi, diversi da quelli passati, magari in contrasto le misure di governance del sistema economico e sociale cui siamo già abituati. Costruire modelli di azione e di pensiero innovativi, avrà conseguenze durevoli, ben oltre la mera gestione dell’emergenza sanitaria, a breve termine. Ad esempio può portare a misure di rilancio dell’economia, ben diverse dalle tradizionali politiche keynesiane o monetariste, che implicano una revisione profonda del nostro modo di vivere, consumare e fare impresa. Il rapido ritorno alla normalità sembra, allo stato dei fatti, una possibilità molto auspicabile, ma poco realistica.

Prendere la Cina sul serio, serve a confrontare produttivamente sistemi molto diversi tra loro, per arrivare a immaginare innovazioni di grande portata.

Fiducia nel mercato e nella libera iniziativa, innovazione tecnologica, stati nazionali sovrani, deboli istituzioni inter-nazionali, helicopter money, mercati finanziari aperti, potrebbero rivelarsi armi insufficienti a governare la cascata di conseguenze imprevedibili che l’arrivo del Corona Virus sta iniziando a innescare in Occidente.

Avvertenza

Ai lettori che non abbiano confidenza con il metodo dell’analisi comparata, di strutture sociali e culturali in paesi diversi, e non abbiano letto il bel libro di Ronald Dore, Bisogna prendere il Giappone sul serio (1987), è opportuno ricordare che il riferimento alla Cina, in questo breve saggio, è un espediente utile a riflettere sulla nostra condizione di occidentali, di fronte alla crisi attuale, e non l’invito a copiare la reazione cinese all’invasione del virus Corona, come modello.

L’autore è impegnato nello sviluppo di un paradigma di analisi che utilizza le “strutture narrative” come strumento di lavoro. Le strutture narrative sono architetture complesse che stanno in piedi grazie alla coerenza tra i diversi elementi che le compongono: il carattere degli agenti protagonisti, le attribuzioni, gli artefatti presenti sulla scena e le azioni possibili.

Per un eventuale approfondimento l’autore rinvia alle ricerche INSITE e MD realizzate presso ECLT Ca’ Foscari negli ultimi anni.

Partire dalla descrizione della crisi epidemica (non “oggettiva”, ma funzionale a comprendere la logica di azione dei protagonisti), porta a evidenziare alcune contraddizioni nel comportamento degli stati liberali occidentali e della Cina. Tutti questi paesi, sia pure in modi diversi, per venire a capo della guerra al Coronavirus, stanno utilizzando le stesse misure.

Tuttavia gli stati occidentali si muovono con ritardo, perché devono andare contro la propria “natura”: blocco totale delle attività produttive per legge, limitazione della libertà personale, uso poco democratico dei mezzi di comunicazione (capi di governo che comunicano con il popolo via Twitter o Facebook, senza discutere con il Parlamento, agenzie di telecomunicazione autorizzate a spiare nella vita privata dei cittadini via cellulare, etc.), sono provvedimenti che creano sconcerto, tra i cittadini occidentali, perché vanno contro i principi costitutivi della democrazia.

Il fatto che stati democratici e liberali adottino un comportamento analogo a quello dello stato comunista cinese, per quanto nella forma di una “sospensione temporanea” della normalità democratica, è incomprensibile a molti cittadini. Cittadini che da 70 anni vivono in una società che ha perso l’abitudine alle situazioni di guerra e alla necessità del “distanziamento” sociale e alle catene di comando gerarchiche, non affidate al mercato.

Per contro, l’impiego delle forze militari e delle regole di lock-down, in Cina, è oggi utilizzato come metodo efficiente per combattere il virus e non come perpetuazione di metodi oppressivi della libertà individuale, tipici del regime comunista. Anche questo è sorprendente e difficile da capire.

Per questa ragione la ricostruzione delle storie parallele di Cina e Occidente ha una “funzione” utile nella ricerca delle innovazioni possibili, in un contesto sconosciuto, nel quale vecchi paradigmi e schemi di azione rischiano di essere inefficaci.

Da ultimo, voglio ricordare che queste riflessioni sono state prodotte in emergenza, con l’obiettivo di suscitare dibattito, reazioni e nuove idee.

In tempo di guerra e non c’è tempo per i formalismi, bisogna produrre cartucce per chi sta al fronte e messaggi utili per chi opera nelle retrovie.

La nuova crisi globale

Nelle ultime settimane è stata spesso evocata la contraddizione, apparentemente insanabile, tra gli obiettivi della guerra al corona virus e gli obiettivi di governo del sistema economico. Qualcuno si azzarda a dire che la priorità data agli obiettivi sanitari sta producendo conseguenze negative sull’economia, più gravi e dannose, nel medio termine, dei benefici offerti alla salute pubblica a breve.

Dal dilemma è possibile uscire solo in due modi: attraverso un’innovazione, che consenta di mettere insieme i vantaggi dell’isolamento, con lo sviluppo del sistema economico, oppure attraverso un “compromesso” tra gli obiettivi, tra loro contrastanti, cercando di minimizzare le perdite. Ma se è vero quello che dicono molti analisti, e cioè che la curva di uscita dalla crisi attuale non sarà a “V”, ma probabilmente a “L”, solo l’innovazione ci salverà.

E’ tempo perso dunque cercar di far prevalere un obiettivo sull’altro, in ragione di criteri etici o di conservazione del business as usual, a prescindere dal quadro nuovo, di profondo cambiamento che la crisi globale propone.

Per qualche settimana qualcuno ha pensato che la diffusione del virus si sarebbe fermata alle soglie di paesi occidentali, grazie al muro igienico-sanitario e alle strutture di assistenza ospedaliera di cui quei paesi dispongono, perché sono i paesi più avanzati del mondo nella lotta alle malattie e nei percorsi di sostenibilità. La polemica interna all’Italia si è focalizzata sui provvedimenti del governo, nella errata convinzione che mettessero l’economia nazionale in una posizione di svantaggio rispetto ad altre economie concorrenti. La diffusione del virus anche in altri paesi, sta oggi dimostrando quanto poco fondata fosse questa interpretazione, così come la presunta migliore capacità di reazione di altre comunità nazionali.

Tutti oggi sono con il fiato sospeso, in attesa di capire come reagirà il resto del sistema mondiale e in particolare gli Stati Uniti, che sono dotati di un sistema di prevenzione e assistenza sanitaria molto diverso da quelli europei. Michel Albert, in un bel libro dei primi anni ’90 (Capitalismo contro Capitalismo) aveva messo in evidenza che la vera differenza tra capitalismo europeo e capitalismo USA, consiste proprio nel diverso sistema di assistenza sociale. In Europa tale sistema è basato sulla mutualità e l’intervento statale, negli USA sulla capacità di precauzione e previdenza del singolo individuo. Nella fase attuale, questa differenza può rivelarsi essenziale.

A prima vista gli USA sono il sistema produttivo meno sensibile alle restrizioni indispensabili per combattere il corona virus, poiché la maggior parte dell’economia americana è basata sui servizi e sul mercato dell’immateriale (ICT, cultura, cinema e TV su nuovi e vecchi media, education, finanza). Tutte attività già oggi gestibili attraverso lo smart-working. E tuttavia proprio gli USA rischiano più dell’Europa l’invasione del virus, poiché non sono in grado di proteggere gli individui meno previdenti, non assicurati, esposti al contagio senza rete, esattamente come nel caso dei titoli sub-prime, alla fine del 2008.

Vedremo cosa succede. Ma un punto deve essere chiaro a tutti coloro che si cimentano con le previsioni, economiche e sanitarie. La crisi attuale, a causa del nemico esterno, richiede innovazioni e parametri di giudizio che non possono essere ricavati pedissequamente dai manuali di teoria economica tradizionali, dal paradigma di Keynes e di Bretton Woods, dalla letteratura economica più recente, e dalla stessa esperienza dei sistemi sanitari (pubblici e privati) che abbiamo sviluppato finora, da una parte e dall’altra dell’Atlantico. Forse i cinesi sono i primi a sperimentare (grazie al “vaccino sociale” che hanno sviluppato ai tempi della SARS) un modello di azione sanitario e previdenziale in linea con la “virulenza” del Cigno Nero esterno.

Come possiamo dunque affrontare il dilemma della “ripresa”, dopo l’inevitabile tonfo di questa prima parte dell’anno e, soprattutto, quali innovazioni dobbiamo introdurre per far fronte alla fase di recessione? Cosa dobbiamo fare, a breve termine, nella fase del coprifuoco, dell’economia di guerra in cui ci troviamo, e quali politiche dobbiamo preparare per la fase immediatamente successiva, per promuovere la ricostruzione post-bellica, post-catastrofe da corona virus?

A queste domande dobbiamo cercare una risposta, mobilitando conoscenze e paradigmi inediti, fuori dallo schema della “pausa” (crisi-recessione) e del “ritorno alla normalità”, che non funziona (la famosa curva a “V”).

Consideriamo in primo luogo il tema dell’innovazione. Quali sono le attività che possiamo promuovere per mettere assieme le nuove condizioni di salute pubblica (l’esigenza di tenere isolate le persone per evitare eventuali contagi, sia nelle situazioni di lavoro, che nei luoghi di consumo e di sviluppo della socialità) e le esigenze della produzione? Come possiamo continuare a produrre valore (riconosciuto dal mercato) fuori dagli schemi classici della fabbrica, dell’ufficio e degli altri siti di cooperazione e co-working?

A questa domanda non è facile trovare una risposta, ma bisogna tentare. Ovviamente, dobbiamo immaginare soluzioni compatibili con i nuovi vincoli da rispettare. Facciamo due esempi.

La scuola o l’erogazione di servizi culturali. In questo caso, sia pure con qualche limitazione, esistono già le tecnologie che consentono di mantenere attiva la produzione. Possiamo immaginare sistemi di e-learning e anche di interazione nella comunità degli studenti e dei discenti che prevengano rischi biologici e di altro tipo. Possiamo perfezionare le soluzioni più efficaci e produttive, come la piattaforma Learning City, oggi utilizzata da FCA, ma facilmente trasferibile in ambienti “non proprietari”. Siamo all’inizio, ma su questa strada milioni di persone si stanno oggi incamminando. Possiamo sviluppare nuove specifiche politiche di supporto?

La produzione di macchine. In questo caso, previa revisione dei processi di logistica delle merci e delle persone, non dovrebbe essere impossibile proseguire. Basterebbe che il personale coinvolto nelle linee di montaggio e installazione avesse a disposizione mezzi di trasporto e strumenti di igiene personale all’altezza del virus. E’ costoso? E’ fattibile in termini pratici? Non sono in grado di stabilirlo. Ma non mi sembra una cosa fuori dal mondo e c’è senza dubbio qualcuno che ci sta pensando. Ad esempio intensificando l’introduzione di robot e sistemi di gestione 4.0 dotati di intelligenza a prova di virus. Anche su questo fronte è possibile attivare specifiche politiche di sostegno?

Per trovare una risposta efficace alle domande sopra citate dobbiamo tuttavia smettere di pensare che i sistemi economici e sociali che adotteranno per primi modelli di produzione e di socializzazione “moderni” (adatti alla nuova fase dell’umanità), avranno un vantaggio competitivo rispetto agli altri. Soprattutto se la minaccia biologica (o derivante da altri fattori, come il climate change) dovesse essere permanente.

Il punto critico è capire se sarà mai possibile “tornare” a una “normalità passata”, dopo un periodo di “pausa” che oggi chiamiamo crisi economica, guerra, emergenza sanitaria, cataclisma fisico, climatico, biologico…, oppure no. Al momento tutti ragioniamo ancora come se tutto tornerà come prima. Tuttavia questo modo di ragionare non ha senso, proprio perché il “Cigno Nero” che è comparso improvvisamente in quest’anno bisestile, per la sua dimensione, ha conseguenze gravi e potenzialmente permanenti sul commercio mondiale e sullo sviluppo dell’economia e della società nei prossimi anni. Prima ci sintonizziamo sul nuovo canale e prima sviluppiamo un paradigma adatto all’innovazione.

Anche per quanto riguarda i provvedimenti congiunturali, a breve termine, le azioni finalizzate a mitigare il trade-off tra fermo forzato delle attività produttive e conseguenze a catena nel sistema economico, è necessario pensare a un modo nuovo, laterale, di muoverci. Ad esempio sperimentando interventi straordinari, improntati al massimo di flessibilità, evitando la replica pura e semplice di soluzioni già adottate in passato (in occasioni solo apparentemente analoghe all’emergenza di oggi). Servono provvedimenti all’altezza dell’unicità e della novità della crisi, che assomiglia a quella del 2008 e a quella del ’29, ma contiene elementi profondamente diversi. Serve un quadro interpretativo che consenta di avviare processi di consapevolezza e apprendimento da parte degli operatori economici, dei lavoratori e dei singoli cittadini.

Un esempio? Invece di concedere prestiti a pioggia e riduzioni fiscali, in ragione di un’assistenza “keynesiana” alle categorie economiche più esposte, secondo il principio protezionista del “prima noi”, si potrebbero privilegiare provvedimenti di sostegno a specifiche filiere globali, driver dell’eventuale ripresa futura. Giusto dare respiro e liquidità alle imprese e alle banche, per evitare che falliscano a breve, ma è indispensabile anche progettare subito una loro possibile ripresa futura, su nuove basi e non soltanto con il ritorno al passato.

Perché non privilegiare imprese e distretti che siano in grado di ridurre a zero i costi e la produzione nel momento di crisi, ma siano in grado di ripartire rapidamente subito dopo la sosta forzata? Oppure, invece di garantire un’assicurazione agli operatori turistici tradizionali, per consentire loro di riprendere l’attività (arretrata) dopo la fine dell’emergenza, perché non dare agevolazioni alla nascita di imprese innovative che incorporano subito elementi di sostenibilità e gestione dei rischi in turismo sicuro e sostenibile del futuro?

Sono solo esempi, che non soddisfano, ovviamente, l’esigenza di indicazioni e soluzioni immediate. Ma inondare l’economia con helicopter money o emanare provvedimenti fiscali che si ispirano al Medio Evo significa percorrere strade ancora più incerte e insoddisfacenti. Quali effetti pensiamo possa produrre un sistema finanziario e bancario come quello attuale, a fronte di problemi inediti di produzione, di riorganizzazione dell’offerta a livello globale, che non sono mai stati presenti dall’invenzione della lettera di cambio ad oggi?

Non a caso Federal Reserve e BCE stanno pensando a piani straordinari di svariati miliardi di dollari/euro. Ma, a parte le dimensioni, si tratta di provvedimenti convenzionali, che postulano il ritorno rapido ai business passati. Corona Virus e Climate Change suggeriscono di guardare in una direzione diversa. Ad esempio la Germania, punta a obiettivi di investimento più radicalmente finalizzati a modifiche strutturali dell’offerta. Ma non esiste un coordinamento federale a livello di Unione Europea, un Piano Marshall (come dicono ormai in troppi) che possa servire a sostituire i business desueti, incompatibili con il contesto globale post-crisi.

In estrema sintesi la crisi attuale può essere considerata da tutti come la prima emergenza davvero globale. Mette in tensione l’Occidente più dell’Oriente, perché si presenta di fronte alla crisi non solo in ordine sparso, ma con un armamentario di strumenti di governo piuttosto obsoleto Ha abbassato al guardia nei confronti delle crisi sanitarie, pensando di essere immune, e ha abbassato la guardia nei confronti delle crisi economiche e finanziarie, pensando che liberismo e mercato aggiustino sempre tutto.

Questa volta però è diverso e non sarà possibile riprendere il percorso di crescita “as usual”, anche perché le infezioni virali o i danni da Climate Change si ripeteranno e non faranno caso ai confini nazionali e continentali.

O sviluppiamo un nuovo schema di cooperazione, al di là degli stati nazione e delle tradizionali organizzazioni inter-nazionali, oppure non saremo in grado di venire a capo dei problemi di interazione tra la nostra specie e altre specie viventi, del rapporto tra modello industriale e limiti del Pianeta, del complesso sistema di relazioni che può degnamente amministrare le diverse “sezioni” dell’umana comunità.

Bisogna prendere la Cina sul serio (Taking China Seriously)

Per impostare politiche “non convenzionali” di ripresa economica in Occidente, dobbiamo probabilmente rinunciare a un eccesso di orgoglio e considerare con attenzione l’esempio della Cina.

In fondo la Cina è stata capace di affrontare l’attacco virale con successo e si predispone a varare provvedimenti utili alla ripresa globale. Dunque in Cina possiamo trovare tracce di una struttura narrativa nuova, che consenta anche ai paesi Occidentali di affrontare in modo efficace la doppia sfida che hanno davanti: vincere la guerra al Corona Virus e impedire la recessione (o meglio, la paralisi del sistema economico nel suo complesso).

Proviamo a ricostruire gli elementi chiave della vicenda cinese, in una sequenza di fasi o atti di un processo di azione collettiva stimolanti per la nostra analisi. Attenzione! Come già anticipato in premessa, la ricostruzione del caso cinese non risponde a criteri di valutazione oggettiva dei fatti e degli avvenimenti, ma serve solo a stimolare la riflessione. Guardate dunque all’insieme e non vi fermate ai dettagli.

Atto I°

Outbreak. Le Autorità della Provincia di Hubei scoprono il focolaio. Cercano di nascondere l’epidemia, perché impegnate nella competizione con altre province.

La competizione è attivata dalle Autorità Centrali in vista del prossimo piano quinquennale, dedicato all’innovazione nelle politiche pubbliche, e prevede sanzioni per i dirigenti che “sbagliano”.

I Cittadini di Hubei sono coinvolti in esperienze di cittadinanza attiva e si scontrano volentieri con l’establishment provinciale. Un medico “attivo e responsabile” capisce per primo la natura inedita del Corona Virus. Tuttavia subisce la repressione del regime semi-democratico in cui vive. La cittadinanza attiva riesce comunque ad allertare altre province e le Autorità Centrali.

Dobbiamo ricordare che in Cina esiste una sorta di federalismo “coordinato” dal centro, che rappresenta una struttura istituzionale sconosciuta in Europa. Tale struttura agevola i processi generativi poiché adotta uno schema “middle-up-down” (simile a quello scoperto da Nonaka e Takeuchi come schema organizzativo sottostante le principali innovazioni in Giappone – nei keiretsu e nelle grandi imprese giapponesi). Tale schema spiega la “velocità” delle trasformazioni economiche e sociali in Cina, dopo le riforme di Deng Xiao Ping (i.e. non ci interessa se il gatto e bianco o nero, basta che sappia prendere i topi).

Atto II°

Distanziazione sociale. Le Autorità Centrali mettono in atto subito procedure di “distanziazione sociale”. Chiudono Hubei. Destituiscono i dirigenti inefficienti a guida delle Autorità Provinciali (gatti neri, ma incapaci di prendere i topi) e attivano un dispositivo di reazione al virus, basato anche sulla immediata costruzione di nuovi ospedali (il nuovo ospedale di Wuhan – 1.000 posti letto, è allestito in 10 giorni), ma soprattutto nella emanazione di provvedimenti riguardanti le libertà personali, che sono coerenti NON tanto con la matrice autoritaria del governo cinese, quanto con il “vaccino sociale” (modello di intervento condiviso con i cittadini) sviluppato ai tempi dell’aviaria e poi della SARS. I Cittadini accettano di stare in casa, non tanto perché sudditi di un governo dispotico, quanto perché culturalmente allineati con lo schema di risposta al virus: prima distanziazione sociale, poi intervento di cura.

In Cina era già presente l’idea che la sanità non è la linea difensiva principale nei confronti di un virus (è una Linea Maginot inefficace, da sola) e che la battaglia principale si combatte casa per casa, città per città, attraverso regole sociali speciali, contro-intuitive.

I cinesi, come altri orientali (giapponesi e coreani) che già prima del Corona Virus avevano imparato a usare la mascherina come strumento di “rispetto” per gli altri, in caso di raffreddore o malattia, si sono adattati subito alle regole rigide della quarantena a costo di tenere lontani genitori e figli, nonni e nipoti.

Atto III°

Logistica solidale. A fianco della limitazione delle libertà personali nelle aree focolaio, la Cina ha attivato un gigantesco sistema di assistenza e solidarietà tra Province e filiere produttive nazionali (e locali). La compresenza di sistemi di mercato e sistemi di gestione statale, ha reso possibile non solo un buona integrazione tra Imprenditori privati (Jack Ma, Huawei) e Pubblica Amministrazione (ad esempio le università, gli ospedali e l’esercito), ma anche una corretta selezione delle filiere da mantenere attive e filiere da fermare (per evitare il contagio – tipo distretto italiano).

Paradossalmente, a fianco dello schema “competitivo” tra Province, le Autorità Centrali cinesi sono riuscite a mettere in campo un dispositivo di emergenza economica che nulla ha a che vedere con lo schema dell’economia di guerra e del tutti contro tutti. Wuhan e la Provincia di Hubei hanno ricevuto gli “approvvigionamenti” da altre Province (che, pur essendo chiuse e a libertà limitata, hanno funzionato da fureria dell’esercito nazionale) e non sono state costrette a coltivare patate e a razionare i viveri al proprio interno. Anche dal punto di vista sanitario, la solidarietà è stata totale. I medici di Wuhan non sono stati lasciati soli nella loro battaglia, così come gli Imprenditori.

Usiamo il termine Autorità Centrali, nel caso della Cina, perché il Governo cinese di Xi Jinping è una cosa diversa dal Governo Federale USA e dal Governo dell’UE (il famoso pasticcio del doppio potere della Commissione e del Consiglio degli Stati). Le Autorità Centrali cinesi svolgono un ruolo di coaching delle Province (Stati interni alla Cina), che è sconosciuto in Occidente e che deriva dalle logiche del PCC.

Atto IV°

Recovery. La Cina non sta adottando un Piano Marshall per Wuhan. Punta semplicemente a riattivare la produzione, con molta cautela e molti limiti (per non importare di nuovo l’infezione), ricreando fiducia tra i Cittadini. Non ne ha bisogno perché, a differenza dei paesi occidentali, è abituata a utilizzare uno schema di governance gerarchico, statale, a fianco del mercato. E non è quindi sensibile, come i paesi occidentali, alla “sospensione” delle libertà democratiche e dei mercati. Perché dispone di un sistema di regolazione aggiuntivo.

Cosa è arrivato in Europa della vicenda cinese? Poco. Perché, a differenza del caso Giapponese (ricordate Taking Japan Seriously di Ronald Dore?), l’esperienza cinese è giudicata non interessante e non trasferibile in Occidente, per la persistenza di giudizi superficiali sul modello di governance della Cina (rapporto tra governo nazionale e province) e sul modello di integrazione tra stato e mercato.

La priorità data dalle autorità cinesi ai provvedimenti sociali (limitazione delle libertà personali nel caso del Corona Virus) è stata confusa con l’autoritarismo.

Invece le autorità cinesi (in questo caso) hanno agito con il “consenso” del popolo, perché la società cinese nel suo insieme (sia pure in transizione da uno schema dispotico a uno più liberale) era già “vaccinata” al metodo sociale di guerra all’epidemia, prima che arrivasse il Corona Virus. Dall’esperienza della SARS tutti i cittadini hanno imparato che la battaglia principale è la “distanziazione sociale”, senza la quale la Linea Maginot della sanità e della medicina non può reggere a lungo. Nessuno si è dunque sorpreso dei provvedimenti restrittivi della libertà personale, come avvenuto in Occidente.

In Occidente, grazie alla diffusione di vaccini per le malattie più importanti e grazie all’ottimo sistema di assistenza sanitaria pubblica e privata, si è abbassata la guardia nei confronti di possibili epidemie. Tanto che i movimenti No-Vax sono diventati molto diffusi. Gli ospedali si sono trasformati in luoghi di cura per malattie particolari (cardio-vascolari, tumori, interventi chirurgici di vario tipo) e si sono svuotati i reparti destinati a combattere le malattie infettive. Allo stesso tempo non si è più investito in piani di public health o di gestione del welfare “non ospedaliero”.

Questo genere di situazione (mancanza di vaccino sociale adatto a situazioni di crisi sanitaria epidemica) l’Occidente non è riuscito a interpretare e comprendere la strategia cinese:

  1. ha vissuto l’epidemia cinese come un problema del Terzo Mondo (i cinesi che mangiano i topi di Zaia), impossibile da registrare nell’Occidente bonificato;
  2. ha interpretato le restrizioni al contatto sociale come policy di un governo dittatoriale, impossibile da importare in Europa o negli USA, perché paesi bonificati dai soprusi delle autorità, apertamente liberal
  3. ha puntato tutte le proprie risorse sulla Linea Maginot della medicina ospedaliera, con la presunzione (oltre tutto) di avere strumenti scientifici migliori di quelli cinesi.

In questo modo i governi e i cittadini europei e americani hanno rifiutato l’idea stessa di poter riflettere sull’esperienza cinese, nella revisione dei meccanismi di governance sospesi o che non funzionano. In Occidente non si è accettata l’idea che la Cina abbia sviluppato una struttura narrativa adatta a combattere il virus. Ma anche a coordinare una nazione in fase di emergenza economica e di resistenza alla paralisi dei mercati.

Le autorità economico-finanziarie occidentali e gli stessi operatori delle filiere industriali hanno trascurato, snobbato, il modello cinese. La cieca fiducia nel mercato (sia quello finanziario, che quello degli approvvigionamenti) e nell’iniziativa privata, ha impedito ai paesi occidentali e alle grandi organizzazioni “federali” (UE e USA) di mettere in campo, finora, politiche non convenzionali, non solo nell’amministrazione finanziaria (vedi BCE e Eurobond), ma anche nella gestione delle filiere produttive.

La chiusura delle frontiere e dei flussi di esportazione, sta oggi provocando un collasso generale delle attività economiche in Occidente, che in Cina non si è verificato, perché, in quel sistema di “province” coordinate dal centro, il mercato è affiancato da un’economia statale, di guerra, che interviene con scopi solidaristici, nella produzione di mascherine e altri generi essenziali, nello sviluppo di infrastrutture (ospedaliere e non).

In Europa e negli USA questo modello “non si può neanche immaginare” (per assurdo), da quando le politiche neo-liberali sono diventate dominanti, vale a dire dopo il crollo del muro e la diffusione del Consenso di Washington. Forse solo in Germania, con l’ordo-capitalismus, persiste un’interazione tra pubblico e privato che può andare da qualche parte. Ma il conflitto tra Merkel (ordo-capitalista) e i dirigenti neo-liberali della Bundesbank, impedisce l’elaborazione di un pensiero innovativo, al servizio del mondo.

Anche il fatto che la frana del sistema Europeo sia partita dall’Italia (paese considerato “pasticcione” e di Serie B dal punto di vista economico e amministrativo) ha confuso le acque e rinviato la riflessione, confermando gli esperti di economia e di finanza occidentali nei loro pregiudizi.

E questo ha impedito a tutti gli occidentali di apprezzare i vantaggi del modello di governance “federale” cinese (delle filiere e dei sistemi di mercato), nella prospettiva di intervenire sul sistema federale degli USA e della UE, in tempo utile per far fronte alla crisi. Almeno nella fase di sospensione delle regole generali di mercato e libera circolazione.

Le autorità inter-nazionali (di matrice neo-liberale) stanno ancora pensando che le difficoltà italiane dipendano dalla debolezza “economica e finanziaria” del nostro paese (autorità spendaccione e piccole imprese improduttive) e possano essere evitate dalla governance virtuosa di altri paesi. Non si preoccupano di verificare l’impatto della crisi (sanitaria e produttiva) nelle diverse filiere (supply chain) e di costruire un sistema di solidarietà europea su alcuni settori portanti, come avviene in Cina. Soprattutto se sarà necessario avviare un’economia di guerra, per un periodo più lungo di quella cinese, non stanno elaborando strategie di governance adeguate.

E d’altra parte non usano neppure il sapere distribuito nelle filiere (ad esempio in quella di Slow Food e Terra Madre, Eataly e FICO) per far fronte all’economia di guerra al virus, alla possibile recessione contemporanea in tutti i paesi, con ripresa a “L” invece che a “V”, ecc, ecc.

In questo campo uno studio serio della narrativa/esperienza cinese sarebbe straordinariamente utile. Ma non viene fatto, perché l’ipotesi stessa di riprendere produzioni statali è rifiutata prima ancora di essere presa in considerazione “per assurdo”. Anche perché molti paesi, e tra questi l’Italia, non sono dotati di competenze statali all’altezza, perché nella Pubblica Amministrazione si è abbassata la guardia o l’asticella dei servizi forniti.

Non solo. Le autorità occidentali (UE e USA) non vogliono studiare con interesse il modello delle Autorità Centrali cinesi, anche solo per assurdo, come alternativa possibile (e democratica) ai modelli federali oggi prevalenti (modello UE e FMI), per pura e semplice inerte superbia.

Alcuni segnali in controtendenza stanno affiorando da qualche giorno, dopo la propagazione del virus in tutti gli stati. Gli interventi della BCE e della FED sono un segnale incoraggiante. E tuttavia continuano a essere una risposta “convenzionale”, nel senso che, nonostante la loro straordinaria dimensione, sono finalizzati a far riprendere l’economia come era prima. E questa prospettiva potrebbe essere non solo illusoria, ma insufficiente. Non pensano in termini di innovazione come suggerito all’inizio di questo scritto.

Non si vede nulla di simile a Bretton Woods all’orizzonte (e neppure un G7 bene organizzato) e nulla di simile al Piano Marshall dei primi anni del dopoguerra. Le autorità monetarie e inter-nazionali si limitano a ripetere ricette passate (quelle applicate durante la crisi del 2008) riportando verso il futuro esperienze passate, senza modificare neppure la loro implementazione, in ragione delle mutate condizioni di contesto.

L’analisi narrativa qui soltanto abbozzata, propria degli innovatori e dei narratori, potrebbe metterebbe in primo piano gli elementi di novità presenti nella struttura narrativa cinese, o da un’altra parte, come strumento utile a progettare il futuro dell’Europa e degli USA.

L’Occidente ha bisogno di introdurre subito elementi di solidarietà a fianco della competizione e nuovi modelli di amministrazione delle filiere tra stato e mercato e modelli di governance dei beni comuni come quelli raccomandati dalla Ostrom.

Dobbiamo fare presto e dobbiamo recuperare una capacità di pensare e di ragionare “fuori dagli schemi passati” che abbiamo dimenticato.

Arcugnano – 23 marzo 2020

Appendice / Corona Virus – Tragedia in quattro atti

(per collegarsi all’appendice cliccare sull’area MDA di questo sito)

4 Responses to “Bisogna prendere la Cina sul serio”

  1. Luca Dal Bosco 27 Marzo 2020 at 14:35 Permalink

    Ciao Paolo, ricevo da un’amica – cui ho mandato le tue riflessioni – che vive la maggior parte dell’anno (da più di 30 anni) in Cina, parla cinese ed è in contatto quotidiano con persone che vivono in molte delle 23 provincie cinesi. La mia amica mi scrive questo: “Sulla questione europea non dico nulla, non mi sento esperta. Sono d’accordo su qualche punto, ma non hai presente una serie di questioni fondamentalmenti: 
    1) che la gente in Cina non ha nessuna libertà di dire sì o no ai provvedimento, che vengono imposti e basta (anche gli italiani sarebbero stati in casa da subito se le loro porte fossero state sbarrate dall’esterno)
    2) la Cina non ha nulla di democratico
    3) la conoscenza della Cina che ha il tuo amico si basa su notizie ufficiali, e basta
    4) anche i cosiddetti ‘privati’ sono in realtà pubblici, sono cioè solo una facciata messa su imprese di partito/governo, che è l’unica potenza e che ha a sua disposizione l’esercito.
    5) gli aiuti che il governo cinese sta dispensando ora non sono e non saranno gratuiti
    6) a ogni singolo cittadino che lascia la Cina per venire in Europa in questi giorni, è proibito di portare con sè più di 200 mascherine (anche se ne vuole portare di più per donarle)
    7) io ho molte testimonianze di persone che erano (e ancora sono) a Wuhan e che hanno tutt’un altro quadro. 
    8) notizie provenienti da Wuhan in prsa diretta si sono diffuse via wechat venendo continuamente cancellate dal governo e recuperate e rispedite dai cittadini
    eccetera, chi più ne ha più ne metta”
    …parlando con lei mi dice anche che negli ultimi 5-6 anni in Cina si è assistito ad una stretta notevole delle libertà personali. Io stesso che ci sono stato a fine 2017 sono rimasto impressionato. Riconoscimento facciale in pratica ovunque. Foto con flash ad ingresso e uscita da autostrade. La scoperta appunto che gli imprenditori in Cina – così come li intendiamo noi – non esistono, ecc. Insomma una situazione per noi del tutto, ma proprio del tutto inaccettabile. Aggiungo che il virus viene da lì come tutte le influenze a partire dal 1968 ed arriva da lì per le condizioni igieniche ed in generale di vita di impressionante arretratezza nelle quali vivono i cinesi. Che la loro sia una società più addomesticata e addomesticabile non c’è dubbio, non credo dunque ci sia nulla da copiare se questo è il prezzo da pagare. Naturalmente la mia amica preferisce rimanere anonima!

    • Paolo 27 Marzo 2020 at 17:26 Permalink

      Caro Luca, ti ringrazio del tuo commento e delle preziose indicazioni della tua amica. Mi sembra di aver spiegato all’inizio del mio articolo, nell’avvertenza, che non è mia intenzione copiare nulla del sistema cinese. Nè negarne gli aspetti poco simpatici sottolineati dalla tua amica. Per la personale esperienza avuta in quel paese tuttavia (oltre che in altre nazioni dell’estremo oriente) mi sembra utile capirne la dinamica senza usare schemi di lettura occidentali, inadatti.
      Quando la tua amica dice che le imprese cinese sono strutture pubbliche, usa una categoria che non ci è utile per ragionare. Le imprese cinesi svolgono nella società di quel paese, molto diversa dalla nostra, funzioni che nel nostro sistema sono attribuite ad altri soggetti (scuole, parrocchie, enti assistenziali, enti locali).
      Proprio il mix di funzioni diverso dal nostro e il rapporto tra stato e cittadini o tra stato centrale e province, se analizzati con freddo distacco, possono forse suggerire combinazioni inedite nel nostro sistema, che lo aiutano a progredire. Senza rinunciare ovviamente ai nostri principi e alla nostra cultura.

  2. Marco Del Rosso 29 Marzo 2020 at 09:45 Permalink

    Ciao Paolo,
    alcune domande che mi pongo leggendo il tuo interessante articolo.
    Pensi che sia possibile ripensare il ruolo dello stato italiano rimanendo all’interno delle attuali regole europee?
    Se no, quali regole dovrebbero essere riviste?
    Sarebbe possibile per l’Italia (ed altri paesi europei) adottare il ”modello” tedesco della stampa pressoché illimitata di euro fuori bilancio mediante KfW? C’e la possibilità di creare un ente analogo da noi?

    Grazie
    Marco

    • Paolo 30 Marzo 2020 at 10:28 Permalink

      Ciao Marco,
      è ancora difficile capire che tipo di Europa avremo davanti tra quindici giorni. Ogni decisione nazionale oggi non può prescindere dal quadro europeo. Immagina cosa saremmo oggi, noi italiani, se non avessimo l’ombrello dell’Euro (!). Mio fratello filosofo, che è praticamente tedesco, dice che la Germania si muove ancora in una prospettiva europeista, anche se la Merkel è cauta per non dare spazio a AFD. Non vuole ripetere il passo falso di qualche anno fa, quando ha detto: “Ce la faremo! (ad accogliere un milione di migranti in ingresso). Gli investimenti previsti dalla Germania possono stimolare effetti a cascata, anche sul nostro paese, ma l’assenza di coordinamento può ridurre l’impatto positivo delle decisioni assunte dai diversi paesi. L’integrazione delle filiere produttive è così forte, che non può esserci ripresa effettiva (tra l’altro con le innovazioni necessarie a consentire il ritorno al lavoro, senza contraddire la regola del distanziamento sociale) senza un minimo di azione comune. Questa, al momento, continua a mancare e, come dice Draghi, i soldi non mancano (grazie alla BCE), ma vanno usati nel modo giusto. E qui non ci sono ricette già pronte. Per quello bisogna osservare (con i filtri giusti) cosa sta facendo la Cina, che è il primo grande paese (federale?) che inizia il percorso di uscita dalla crisi. Se ho notizie utili, non mancherò di pubblicarle. A presto!


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