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13 Marzo 2020 ~ 0 Comments

La nuova crisi globale

Nelle ultime settimane è stata spesso evocata la contraddizione, apparentemente insanabile, tra gli obiettivi della guerra al corona virus e gli obiettivi di governo del sistema economico. Qualcuno si azzarda a dire che la priorità data agli obiettivi sanitari sta producendo conseguenze negative sull’economia, più gravi e dannose, nel medio termine, dei benefici offerti alla salute pubblica a breve.

Dal dilemma è possibile uscire solo in due modi: attraverso un’innovazione, che consenta di mettere insieme i vantaggi dell’isolamento, con lo sviluppo del sistema economico; oppure attraverso un “compromesso” tra gli obiettivi, tra loro contrastanti, cercando di minimizzare le perdite. Ma se è vero quello che dicono molti analisti, e cioè che la curva di uscita dalla crisi attuale non sarà a “V”, ma probabilmente a “L”, solo l’innovazione ci salverà.

E’ tempo perso dunque cercar di far prevalere un obiettivo sull’altro, in ragione di criteri etici o di conservazione del business as usual, a prescindere dal quadro nuovo, di profondo cambiamento che la crisi globale propone.

Per qualche settimana qualcuno ha pensato che la diffusione del virus si sarebbe fermata alle soglie di paesi occidentali, grazie al muro igienico-sanitario e alle strutture di assistenza ospedaliera di cui quei paesi dispongono, perché sono i paesi più avanzati del mondo nella lotta alle malattie e nei percorsi di sostenibilità. La polemica interna all’Italia si è focalizzata sui provvedimenti del governo, nella errata convinzione che mettessero l’economia nazionale in una posizione di svantaggio rispetto ad altre economie concorrenti. La diffusione del virus anche in altri paesi, sta oggi dimostrando quanto poco fondata fosse quella interpretazione, così come la presunta migliore capacità di reazione di altre comunità nazionali.

Tutti oggi sono con il fiato sospeso, in attesa di capire come reagirà il resto del sistema mondiale e in particolare gli Stati Uniti, che sono dotati di un sistema di prevenzione e assistenza sanitaria molto diverso da quelli europei. Michel Albert, in un bel libro dei primi anni ’90 (Capitalismo contro Capitalismo) aveva messo in evidenza che la vera differenza tra capitalismo europeo e capitalismo USA, consiste proprio nel diverso sistema di assistenza sociale. In Europa tale sistema è basato sulla mutualità e l’intervento statale, negli USA sulla capacità di precauzione e previdenza del singolo individuo. Nella fase attuale, questa differenza può rivelarsi essenziale.


A prima vista gli USA sono il sistema produttivo meno sensibile alle restrizioni indispensabili per combattere il corona virus, poiché la maggior parte dell’economia americana è basata sui servizi e sul mercato dell’immateriale (ICT, cultura, cinema e TV su nuovi e vecchi media, education, finanza). Tutte attività già oggi gestibili attraverso lo smart-working. E tuttavia proprio gli USA rischiano più dell’Europa l’invasione del virus, poiché non sono in grado di proteggere gli individui meno previdenti, non assicurati, esposti al contagio senza rete, esattamente come nel caso dei titoli sub-prime, alla fine del 2008.

Vedremo cosa succede. Ma un punto deve essere chiaro a tutti coloro che si cimentano con le previsioni, economiche e sanitarie. La crisi attuale, a causa del nemico esterno, richiede innovazioni e parametri di giudizio che non possono essere ricavati pedissequamente dai manuali di teoria economica tradizionali, dal paradigma di Keynes e di Bretton Woods, dalla letteratura economica più recente, e dalla stessa esperienza dei sistemi sanitari (pubblici e privati) che abbiamo sviluppato finora, da una parte e dall’altra dell’Atlantico. Forse i cinesi sono i primi a sperimentare (grazie al “vaccino sociale” che hanno sviluppato ai tempi della SARS) un modello di azione sanitario e previdenziale in linea con la “virulenza” del cigno esterno.

Come possiamo dunque affrontare il dilemma della “ripresa”, dopo l’inevitabile tonfo di questa prima parte dell’anno e, soprattutto, quali innovazioni dobbiamo introdurre per far fronte alla fase di recessione? Cosa dobbiamo fare, a breve termine, nella fase del coprifuoco, dell’economia di guerra in cui ci troviamo, e quali politiche dobbiamo preparare per la fase immediatamente successiva, per promuovere la ricostruzione post-bellica, post-catastrofe da corona virus?

A queste domande dobbiamo cercare una risposta, mobilitando conoscenze e paradigmi inediti, fuori dallo schema della “pausa” (crisi-recessione) e del “ritorno alla normalità”, che non funziona (la famosa curva a “V”).

Consideriamo in primo luogo il tema dell’innovazione. Quali sono le attività che possiamo promuovere per mettere assieme le nuove condizioni di salute pubblica (l’esigenza di tenere isolate le persone per evitare eventuali contagi, sia nelle situazioni di lavoro, che nei luoghi di consumo e di sviluppo della socialità) e le esigenze della produzione? Come possiamo continuare a produrre valore (riconosciuto dal mercato) fuori dagli schemi classici della fabbrica, dell’ufficio e degli altri siti di cooperazione e co-working?

A questa domanda non è facile trovare una risposta, ma bisogna tentare. Ovviamente, dobbiamo immaginare soluzioni compatibili con i nuovi vincoli da rispettare. Facciamo due esempi.

La scuola o l’erogazione di servizi culturali. In questo caso, sia pure con qualche limitazione, esistono già le tecnologie che consentono di mantenere attiva la produzione. Possiamo immaginare sistemi di e-learning e anche di interazione nella comunità degli studenti e dei discenti che prevengano rischi biologici e di altro tipo. Possiamo perfezionare le soluzioni più efficaci e produttive, come la piattaforma Learning City, oggi utilizzata da FCA, ma facilmente trasferibile in ambienti “non proprietari”. Siamo all’inizio, ma su questa strada milioni di persone si stanno oggi incamminando. Possiamo sviluppare nuove specifiche politiche di supporto? Probabilmente sì, ma travalicano i confini nazionali (come Wikipedia).

La produzione di macchine. In questo caso, previa revisione dei processi di logistica delle merci e delle persone, non dovrebbe essere impossibile proseguire. Basterebbe che il personale coinvolto nelle linee di montaggio e installazione avesse a disposizione mezzi di trasporto e strumenti di igiene personale all’altezza del virus. E’ costoso? E’ fattibile in termini pratici? Non sono in grado di stabilirlo. Ma non mi sembra una cosa fuori dal mondo e c’è senza dubbio qualcuno che ci sta pensando. Ad esempio intensificando l’introduzione di robot e sistemi di gestione 4.0 dotati di intelligenza a prova di virus. Anche su questo fronte è possibile attivare specifiche politiche di sostegno? Probabilmente sì e, anche in questo caso, ben oltre i confini nazionali, come l’esperienza dei makers ci ha insegnato.

Non ha più senso dire che i sistemi economici e sociali che adotteranno per primi sistemi di produzione e di socializzazione “moderni” (adatti alla nuova fase dell’umanità), avranno un vantaggio competitivo rispetto agli altri. Soprattutto se la minaccia biologica (o derivante da altri fattori, come il climate change) dovesse essere permanente.

Il punto critico è capire se sarà mai possibile “tornare” a una “normalità passata”, dopo un periodo di “pausa” che oggi chiamiamo crisi economica, guerra, emergenza sanitaria, cataclisma fisico, climatico, biologico…, oppure no. Al momento tutti ragioniamo ancora come se tutto tornerà come prima.

Tuttavia questo modo di ragionare non ha senso, proprio perché il “cigno nero” che è comparso improvvisamente in quest’anno bisestile, per la sua dimensione, avrà conseguenze permanenti sul commercio mondiale e sullo sviluppo dell’economia e della società nei prossimi anni. Prima ci sintonizziamo sul nuovo canale e prima sviluppiamo un paradigma adatto all’innovazione.

Anche per quanto riguarda i provvedimenti congiunturali, a breve termine, le azioni finalizzate a mitigare il trade-off tra fermo forzato delle attività produttive e conseguenze a catena nel sistema economico, è necessario pensare in modo nuovo, laterale, su un altro canale. Ad esempio sperimentando interventi straordinari, improntati al massimo di flessibilità, evitando la replica pura e semplice di soluzioni già adottate in passato (in occasioni solo apparentemente analoghe all’emergenza di oggi). Servono provvedimenti all’altezza dell’unicità e della novità della crisi, che assomiglia a quella del 2008 e a quella del ’29, ma contiene elementi profondamente diversi. Serve un quadro interpretativo che consenta di avviare processi di consapevolezza e apprendimento da parte degli operatori economici, dei lavoratori e dei singoli cittadini.

Un esempio? Invece di concedere prestiti a pioggia e riduzioni fiscali, in ragione di un’assistenza “keynesiana” alle categorie economiche dei singoli stati, secondo il principio protezionista del “prima noi”, si potrebbero privilegiare provvedimenti di sostegno a specifiche filiere globali, driver dell’eventuale ripresa futura?

Perché non privilegiare imprese e distretti che siano in grado di ridurre a zero i costi e la produzione nel momento di crisi, ma siano in grado di ripartire rapidamente subito dopo la sosta forzata? Oppure, invece di garantire un’assicurazione agli operatori turistici tradizionali, per consentire loro di riprendere l’attività (arretrata) dopo la fine dell’emergenza, perché non dare agevolazioni alla nascita di imprese innovative globali che incorporano subito elementi di sostenibilità e gestione dei rischi in turismo sicuro e sostenibile del futuro?

Sono solo esempi, che non soddisfano, ovviamente, l’esigenza di indicazioni e soluzioni immediate. Ma inondare l’economia con helicopter money o emanare provvedimenti fiscali che si ispirano al Medio Evo significa percorrere strade ancora più incerte e insoddisfacenti. Quali effetti pensiamo possa produrre un sistema finanziario e bancario come quello attuale, a fronte di problemi inediti di produzione, di riorganizzazione dell’offerta a livello globale, che non sono mai stati presenti dall’invenzione della lettera di cambio ad oggi?

In estrema sintesi voglio dire che la crisi attuale è la prima emergenza davvero globale, un’emergenza che colpisce la nostra specie ben oltre i confini nazionali e regionali. O sviluppiamo un nuovo schema di cooperazione, al di là degli stati nazione e delle tradizionali organizzazioni inter-nazionali oppure non saremo in grado di venire a capo dei problemi di interazione tra la nostra specie e altre specie viventi, del rapporto tra modello industriale e limiti del Pianeta, del complesso sistema di relazioni che può degnamente amministrare le diverse “sezioni” dell’umana comunità.

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