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22 Gennaio 2020 ~ 0 Comments

Aziende e borsa a Nordest. Una riflessione sulle (poche) aziende quotate

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La prima cosa che viene in mente, scorrendo la lista delle imprese quotate del Nordest, è che sono tutte aziende innovative. Raccolgono capitali da azionisti diffusi, perché raccontano una storia convincente, tecnologica. E sono eccellenti nel rappresentare il carattere di servizio, a una filiera globale emergente, tipico del Made in Nordest.

Sono aziende che seguono una traiettoria di crescita analoga a molte aziende high-tech USA, con due differenze sostanziali.

  1. In America le aziende high-tech nascono grazie ad accordi tra tecnici, con competenze scientifiche di avanguardia, che si mettono assieme per sviluppare un progetto, condividendo il rischio attraverso il meccanismo delle stock-option. La nuova azienda/progetto parte spesso senza capitale (o con i pochi denari che i soci e i collaboratori hanno in tasca), ma si valorizza subito attraverso l’accesso al mercato borsistico o chiamando in causa un finanziatore/sponsor esterno. Questo passaggio consente non solo di raccogliere capitali, ma anche di dare un “valore” alle azioni dei collaboratori.

In Italia questo meccanismo non c’è e solo alcune aziende (quelle che reggono l’accordo con i propri tecnici, su base fiduciaria e personale, a lungo termine) riescono a crescere in assenza di una valorizzazione di borsa.

  1. In America ci sono investitori informati (anche signore Marie, con un buon broker vicino) e un mercato finanziario ampio, che funziona in modo trasparente, popolato da una nutrita schiera di società di assistenza finanziaria e venture capital. Centinaia, se non migliaia di aziende (non 3 come in Italia) e banche che sono in grado di offrire opportunità di investimento diversificate (e non solo obbligazioni, BOT e baciate come in Italia).

In Italia il FTSE MIB è asfittico e prevalentemente composto da banche e grandi aziende (post-privatizzazioni). Non propone un universo di progetti su cui scommettere. Scarseggiano i broker, vale a dire i consulenti di investimento che guadagnano a percentuale sul risultato.

Nel nostro paese, e nel Nordest in particolare, restano solo due strade per fare impresa, crescere e arrivare a fonti di finanziamento diverse dalla banca (locale).

La prima è quella di assumere il ruolo di capofila o di fornitore specializzato in un distretto, crescere lentamente attraverso l’impegno di risorse familiari, acquisizioni o accordi con private equity e fondi (spesso chiusi), per mantenere, diciamo così, una certa flessibilità gestionale: con i tecnici più bravi, con i fondi, con le banche e soprattutto con fornitori e clienti.

La seconda strada è quella dell’impresa innovativa, non distrettuale, che punta a valorizzare il patrimonio dei soci, tenendo distinti gli interessi dei fondatori dalla dinamica delle controllate. In questo caso la ricerca di capitali può anche passare attraverso procedure di evidenza pubblica, purché le finanziarie di controllo restino “private”. Anche su questa strada la leva delle stock-option non è attiva, e non ci sono grandi mezzi per coinvolgere, motivare e attirare collaboratori chiave per lo sviluppo del business. Ricordiamo ancora tutti, il virulento confronto tra il comunicatore Toscani e la famiglia Benetton, proprio sul tema delle regole di ingaggio e collaborazione.

Ai capitani coraggiosi che scelgono la via della borsa, a Nordest, va riconosciuto il merito di aver provato a evitare le trappole dei percorsi obbligati, qui citati, a immagine e somiglianza delle start-up USA. Uscire dalla logica distrettuale e navigare come “indipendenti”, scegliendo fin da principio una logica extra-territoriale (sia pure in piccolo), per valorizzare, fin dove possibile, la qualità public/manageriale del controllo e il ruolo dei collaboratori.

Il fatto è che questi capitani sono rimasti maledettamente pochi, in confronto alle migliaia di imprenditori del Nordest.

I tempi però cambiano e anche gli operatori tradizionali cominciano a capire che affidarsi alle banche è una scelta perdente. Gli istituti di credito navigano a vista, rispettano indici di merito (rating) “standard”, che non garantiscono gli innovatori, perché si collocano nella coda della gaussiana. Nei prossimi anni dovranno affrontare processi di ristrutturazione costosi e avranno ancora meno tempo per ragionamenti sofisticati.

Entrare nella logica della borsa è invece possibile, e superare gli esami di ammissione, a patto di cambiare registro, di essere innovativi davvero e non solo fornitori qualificati di filiere e clienti globali.

Possono le aziende oggi quotate rappresentare un riferimento per altri innovatori emergenti e per “signore Marie” nordestine che vogliano uscire dalla trappola delle obbligazioni a rendimento (falsamente) garantito?

Credo di sì. Le piccole imprese innovative possono trovare partner ideali non solo negli investitori istituzionali, ma anche e soprattutto nei propri collaboratori e nei risparmiatori del proprio territorio. Sono questi soggetti che vanno chiamati a investire su progetti seri, proponendo storie convincenti e i bilanci trasparenti. Molti piccoli investitori non vedono l’ora di affrancarsi dai consigli dei “bancari” e dei consulenti finanziari che non lavorano a risultato. Possono cominciare a entrare in rapporto con aziende promettenti (come azionisti veri – a rischio), se intravedono ricadute positive sul territorio, oltre che sul proprio portafoglio.

Non investiranno l’intera liquidazione, come hanno fatto con le banche popolari, ma sono pronti a dare una mano, a impegnarsi a fianco di tecnici giovani, che impegnano il cervello, e rispettano i patti di azionariato diffuso. Sempre meno sono disponibili a dare soldi alla cieca a imprese note, e banche, che vivacchiano, sfruttando rendite di posizione e opacità delle informazioni.

In borsa e in altri canali di gestione diretta del risparmio, a differenza che nelle popolari, possono muoversi più rapidamente verso investimenti promettenti, anche nel territorio, senza aspettare decisioni di terzi e… rimborsi tardivi da parte dello Stato.

© Quotidiani Gruppo Editoriale L’Espresso (Mercoledì 22 Gennaio 2020)

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