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03 Ottobre 2019 ~ 0 Comments

Anomalia Italiana

Siamo diventati un paese rassegnato a un declino dignitoso. Questa è l’anomalia italiana nel nuovo millennio. Un’anomalia che spiega il basso tasso di produttività, il basso tasso di natalità, la fuga dei cervelli e la mancanza di partiti e di governi in grado di ambire a strategie di crescita, di investimento e di rinnovamento strutturale del paese.

Siamo fermi al ricordo degli anni ’80, della gloriosa “Terza Italia” dei distretti e delle piccole imprese, al suo debutto nella serie A dell’economia mondo.

Ai tempi in cui Michael Porter dedicava buona parte della propria ricerca proprio all’anomalia italiana. Una novità da studiare, nel contesto della seconda globalizzazione. Un contesto nel quale lo sviluppo si andava concentrando in alcuni territori più competitivi (vedi le tesi di Paul Krugman su Geografia e commercio internazionale e quelle che Kenichi Ohmae sulla fine degli Stati Nazione e l’emergere degli Stati Ragione) e l’Italia rappresentava uno di questi territori.

L’Italia del Nord e del Nordest, in particolare, con reti dinamiche di piccole imprese e una società dei tecnici/imprenditori orientate al merito, anche fuori dalle regole desuete delle organizzazioni gerarchiche, dei titoli di studio e dell’industria protetta, mobilitavano consensi, competenze e flussi demografici in entrata.

Il modello appariva credibile agli occhi di tutti e conquistava la simpatia dell’universo mondo. A quel successo si sono ispirati i tentativi di Prodi, Trigilia e Barca, ma anche di Tremonti, di far leva sulle reti territoriali, come strumento per ri-vitalizzare il Mezzogiorno, nelle filiere globali promettenti alle soglie del nuovo millennio (quella del turismo e dell’agro-alimentare slow, ad esempio).

Quei tentativi, tuttavia, sono andati a vuoto e dalla seconda metà degli anni ’90 il fiore della competitività è andato appassendo, senza che la classe dirigente, nelle università così come nei palazzi del potere (regioni incluse!), riuscisse a trasformare l’anomalia casuale degli anni 80, in un modello codificato e ripetibile nel tempo.

Ecco perché la società italiana ha smesso di lottare, ha perso il gusto della competizione e si è seduta nell’amministrazione del patrimonio accumulato negli anni buoni del Second Industrial Divide (Charles Sabel e Michael Piore).

La questione del passaggio generazionale è diventata allora cruciale, sia per la continuità delle imprese e dei distretti, sia per il rinnovamento delle professioni nelle industrie di punta. E sono cominciati l’esodo dei giovani impazienti, la crescita del debito e la crisi demografica che è sotto gli occhi di tutti.

L’anomalia italiana di oggi è una società rassegnata al declino dignitoso e una classe politica e un sistema di partiti sdraiati a lottare per il 2.04% di deficit in più. Ma davvero non abbiamo punti di leva per un riscatto? Davvero il Nordest, che ama paragonarsi alla Baviera, non mantiene in sé l’energia per scuotersi dal piano inclinato? Noi siamo persuasi che il vitalismo non sia interrotto, dei fattori di forza parleremo ancora su queste pagine. 

© Quotidiani Gruppo Editoriale L’Espresso (Giovedì 3 Ottobre 2019)

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