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17 Luglio 2019 ~ 1 Comment

La cultura dell’autonomia

Il confronto sull’autonomia differenziata, nuova frontiera del pensiero federalista italiano, diventa più aspro e sollecita una riflessione “seria” sulle basi culturali e sociali, più che politiche, della contesa.

I veneti sono spinti a condividere, più di altri “popoli regione”, il tema dell’autonomia (non saprei dire cosa frulla nella testa dei lombardi o degli emiliani o dei campani) per un comune senso di rivalsa nei confronti di uno Stato nazionale sistematicamente poco empatico nei confronti degli eterni “polentoni”.

I veneti si sentono parte offesa, parte debole nel contratto nazionale, sottoposta ai soprusi di una maggioranza nazionale chiusa in difesa di privilegi desueti da “sistema paese” (spese superiori ai costi standard, sprechi tollerati e rimborsati a piè di lista), incompatibili con i vincoli sempre più stretti imposti dalla competizione globale.

Il fatto che il Veneto sia diventato una regione “ricca” è una percezione esterna e un dato statistico, più che un sentimento locale. Vero è che i veneti hanno conquistato posizioni su posizioni, nei mercati globali, e stabilità di reddito, ma a costi molto alti: minore tutela del lavoro e degli stessi interessi imprenditoriali privati, livelli di impegno produttivo impensabili altrove, vincoli sempre più stringenti da parte dei clienti internazionali.

Il senso di rivalsa e la richiesta di maggiore autonomia, anche fiscale, derivano da questa peculiare storia di impegno individuale e collettivo. Il Veneto dei distretti si è riscattato dalla povertà vera e dall’emigrazione del secondo dopoguerra, grazie a uno sforzo endogeno straordinario e in assenza di politiche pubbliche, nazionali ed europee (analoghe per esempio a quelle offerte al Mezzogiorno).

Il fatto è, da qualche tempo, che la giusta rivendicazione di un riconoscimento della traiettoria virtuosa seguita dal sistema regionale, si sta affiancando a un’onda rancorosa “sovranista”, un’onda del “prima noi”, che sconfina nella “legge del più forte”. E’ una variante “salviniana” che si sovrappone al federalismo originario e stride con la cultura del lavoro e del sacrificio per la comunità locale, o per il distretto industriale, e con l’immagine di un Veneto umile, a testa bassa, dedito al fare e ai risultati concreti, più che alla rivendicazione “politica” urlata.

L’ostinazione con cui Zaia difende le ambizioni del “suo” popolo e il puntiglio con cui Erika Stefani difende la sua proposta all’interno del governo tendono a rispecchiare l’onda più recente e non più il federalismo delle origini, quello che – almeno in una determinata e conclusa fase – era riuscito a guadagnare il rispetto nazionale.

In questo contesto la parola autonomia cambia di segno. Non riesce più a essere una bandiera nazionale, a suscitare simpatia, in un quadro unitario per l’Italia. Ma in questo modo il Veneto rischia di perdere e insieme al Veneto a perdere una chance fondamentale di modernizzazione sarebbe l’Italia tutta. Aggiunta: il Veneto rischia di perdere male.

© Quotidiani Gruppo Editoriale L’Espresso (Mercoledì 17 Luglio 2019)

One Response to “La cultura dell’autonomia”

  1. Tommaso Dal Bosco 29 Luglio 2019 at 11:26 Permalink

    Sai che sono sempre d’accordo con te.
    E’ interessante il discorso che, uno come Calenda, sia stato eletto in una circoscrizione elettorale coincidente in larga parte con i richiedenti (o i già aventi) speciali autonomie regionali, ed è affascinante la tesi secondo cui lui potrebbe essere uno che mette d’accordo tutti. A questo però cercherei di aggiungere, perchè mi pare che manchi nel tuo articolo (anche se ne capirei l’opportunità), qualche riferimento alla effettiva sostenibilità del modello veneto dei distretti e alla sua riconvertibilità o, almeno, convergenza verso questa.
    Può darsi che ciò sia ascrivibile proprio alla mancanza di infrastrutture, investimenti e politiche pubbliche ma, una riflessione non solo sui costi di ristrutturazione di quel sistema produttivo ma anche della disponibilità degli attori privati che hanno inventato e coltivato il modello reticolare distrettuale ma che sono rimasti piccoli e forse inadeguati a cogliere le sfide globali di medio lungo periodo migliorando performance, impatto ambientale e produzione di beni pubblici, secondo me deve essere fatta. Altrimenti ce la raccontiamo.
    Un’altra cosa su cui secondo me è necessario riflettere è sulle obiettive difficoltà tecniche per la attribuzione strutturale di margini di autonomia differenziata alle regioni tra obiettive esigenze economiche e dello Stato nazionale e retorica della solidarietà. Difficoltà tecniche che sono sia di ordine procedurale (si fa un accordo tra governi centrale e regionali e lo si sottopone al Parlamento per la fiducia, oppure si rischia che questo lo emendi magari svuotandolo di contenuti?) che strutturale (il calcolo dei costi standard che mai si è riusciti a realizzare in modo seriamente credibile e il rapporto tra i bilanci nell’esercizio autonomo delle funzioni attribuite).
    Non a caso non esiste una vera proposta di articolato per l’accordo ma solo un dossier vago e inadatto a regolare la questione.
    Rimane una cosa per me scoraggiante: il fatto che il PD (che peraltro governa l’Emilia Romagna anche se è in procinto di perderla) non riesca proprio a dire nulla di diverso dall’agitare il fantasma della rottura dell’unità nazionale invece che ragionare su una prospettiva che esca dalla logica conservativa e difensiva (peraltro impraticabile a costituzione vigente) per lanciare un’idea diversa da quella di tenere il freno a mano tirato ai più bravi per usarli invece come traino per l’intero Paese.


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