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09 Giugno 2016 ~ 0 Comments

La “politica industriale” in Italia (tra Prima e Seconda Repubblica)

Il libro di Franco Debenedetti (Scegliere i vincitori, salvare i perdenti. L’insana idea della politica industriale, Marsilio) offre un’interessante chiave di lettura dei problemi che la Seconda Repubblica non ha risolto, in materia di politiche per l’industria e di investimenti in infrastrutture.

La tesi di Debenedetti è riassumibile in un breve passaggio: “Avendo puntato sugli enti pubblici per la politica dell’industrializzazione del paese, (in Italia) viene a mancare l’interesse a definire regole del gioco e ruolo dell’amministrazione pubblica”.

Debenedetti

 

 

 

 

 

 

Questo è accaduto ai tempi dell’IRI e delle Partecipazioni Statali, quando i governi della Prima Repubblica affidavano a manager “pubblici” investimenti importanti, assicurando ad essi una corsia preferenziale per i progetti e le scelte di finanziamento. Ma questo è continuato ad accadere anche nella Seconda Repubblica, nonostante gli accordi di Maastricht e le privatizzazioni imposte dall’accordo Van Miert/Andreatta, che dovevano riportare l’Italia all’interno di un sistema di regole “occidentali”.

Al posto dell’IRI c’è oggi la Cassa Depositi e Prestiti, ma la logica di intervento diretto dello Stato, nella gestione di investimenti ritenuti “strategici” per il paese, è sempre la stessa. Passa oggi attraverso iniziative “straordinarie” del governo (e dei suoi consulenti) su autostrade digitali, infrastrutture di comunicazione, industrie tecnologiche, servizi pubblici locali, esattamente come passava attraverso le corsie preferenziali delle FF.SS., di Telecom, della Finsider/ILVA, Alitalia, ai tempi del CAF (Craxi-Andreotti-Forlani), prima di Tangentopoli.

Per questo il libro di Debenedetti è interessante. Perché individua nella politica industriale la struttura narrativa che meglio interpreta il nostro passato e ci guida verso futuro. Ci illumina a proposito della nostra identità nazionale, in alcuni passaggi che riguardano le banche (la stessa figura di Alessandro Penati) e aiuta a comprendere cosa farà Atlante e come si muoverà Renzi nei prossimi mesi, soprattutto dopo il referendum costituzionale.

Il libro è interessante inoltre perché offre un’implicita spiegazione della caduta di produttività, della quale ci stiamo occupando da qualche tempo sul nostro giornale. La spiegazione si articola in tre passaggi.

  1. Regole europee di politica per l’industria (sostegno alla concorrenza, liberalizzazioni e privatizzazioni) sono state introdotte nel ‘92, ma non hanno avuto efficacia, perché è sempre prevalsa l’ideologia della politica industriale, come controllo diretto dello Stato sull’economia e sulle infrastrutture (sia pure attraverso trucchi formali come la “privatizzazione” della CDP).
  2. Regole europee di gestione della Pubblica Amministrazione sono state introdotte dopo Tangentopoli, ma hanno portato solo a un progressivo imbarbarimento burocratico, a nuove vie di corruzione e a una crescente ostilità nei confronti delle imprese private. Non a una vera apertura della concorrenza, con regole e authority efficienti per la regolazione dei mercati (da quello dell’acqua a quello delle tecnologie digitali).
  3. Il sistema italiano è rimasto in mezzo al guado. Non si è adeguato alle consuetudini di una moderna economia occidentale e continua a privilegiare aziende pubbliche che non sono più in grado di trainare l’economia del paese verso l’innovazione, come accaduto in un (ahimè lontano) glorioso passato.

Il combinato disposto di questi elementi spiega come mai stiamo perdendo competitività dall’inizio della Seconda Repubblica. A livello nazionale, ma anche a livello locale, nelle province in cui la permanenza di imprese a controllo “pubblico/collettivo” e il persistere della logica “paternalistica” stanno producendo danni irreparabili.

 

Pubblicato su Il Giornale di Vicenza del 9 giugno 2016 (© Il Giornale di Vicenza)

 

 

 

Altre riflessioni a margine del libro di Franco Debenedetti

Un passaggio chiave dalla Prima alla Seconda Repubblica è la fine delle partecipazioni statali e dell’IRI, come conglomerato di aziende pubbliche tecnologiche.

Lo sviluppo economico dell’Italia ha seguito una strada particolare fin dalle sue origini, nel contesto delle economie di mercato occidentali. E’ stato fortemente voluto e influenzato dallo Stato, che ha svolto la funzione di principale investitore nelle infrastrutture, ma anche in molte industrie di punta. L’IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale, costituito dal Fascismo per salvare le grandi imprese minacciate dalla crisi del ’29, è stato l’incubatore di molte attività tecnologiche, che il settore privato non ha avuto la forza di sviluppare, anche nel secondo dopoguerra.

E’ la nostra storia. La nostra anomalia nazionale. In nostro ordo-capitalismus. Perfino gli americani hanno accettato la proposta dei primi governi repubblicani, che chiedevano di proseguire sulla strada della modernizzazione attraverso le grandi conglomerate pubbliche. Lo hanno ricordato, nelle scorse settimane, molti articoli dedicati al 70° anniversario della Repubblica e lo ricorda il libro di Franco Debenedetti in discussione oggi ai Chiostri di Santa Corona.

Senza SIP, le acciaierie dell’ILVA, le società autostradali, Alitalia, ENEL, ENI, Finmeccanica, il miracolo economico non si sarebbe probabilmente realizzato e le grandi imprese private (Pirelli, Fiat, Montedison, Olivetti) non avrebbero avuto altrettanto successo. Senza le banche pubbliche, che hanno raccolto il risparmio degli italiani e lo hanno convogliato sui grandi progetti di modernizzazione pubblici, non avremmo avuto la crescita della produttività e la creazione di condizioni favorevoli allo sviluppo della piccola impresa che in effetti abbiamo avuto negli anni ’70 e ‘80.

Il nostro paese è stato quindi influenzato dal ruolo delle imprese pubbliche tecnologiche. E anche dopo le grandi privatizzazioni, concordate con l’Unione Europea nel ’92, l’apparato industriale “pubblico” ha continuato a ricevere un trattamento di particolare favore (lo ricorda Fubini in un suo articolo sul Corriere del 2 giugno).

Tuttavia, e qui sta il problema e un’ulteriore possibile causa di crisi della produttività totale dei fattori, nella Seconda Repubblica le imprese pubbliche industriali hanno cessato di svolgere una funzione di driver degli investimenti tecnologici e dell’innovazione. Ovviamente non stiamo dicendo che tali imprese siano sempre state un modello di efficienza e di innovazione.

Stiamo sostenendo che quelle imprese erano le “uniche” capaci, nel nostro particolare sistema burocratico e amministrativo, di procedere celermente con investimenti a rischio, innovazioni (a volte sbagliate), autorizzazioni che le imprese private facevano e fanno ancora fatica ad avere. In altri termini sosteniamo l’ipotesi che nel nostro peculiare sistema amministrativo e giudiziario (al quale in altri articoli, dedicati alla caduta di produttività, ho attribuito la maggiore responsabilità del declino industriale italiano) le imprese pubbliche siano le “uniche” capaci di sopravvivere e di trovare un reale vantaggio competitivo, una corsia preferenziale per correre.

Certo si tratta di un vantaggio che può facilmente essere confuso con la “protezione”, ma nel contesto italiano solo queste imprese “speciali” (pubbliche) hanno la possibilità di operare in settori che alle imprese “normali” (private italiane o estere che siano) sono, di fatto, preclusi.

E’ arcinoto che il “sistema paese” scoraggia l’attività dei privati e pone condizioni quasi impossibili al “fare impresa”. Casi come quello di Italo nelle ferrovie, dei gestori telefonici diversi da Telecom nella telefonia o dei fornitori di energia diversi da ENEL, delle società autostradali europee, delle utility di dimensioni globali…, sono emblematici.

L’eliminazione delle imprese “favorite” dallo Stato dopo il ‘92, in presenza di uno Stato arretrato e imbarbarito (che ha incorporato i nuovi vincoli dell’Europa come incentivo ad un ulteriore decadimento) si è tradotto in un saldo netto di produttività negativo, che inizia proprio in corrispondenza della Seconda Repubblica e coincide con la separazione tra controllo diretto (favore) statale e attività produttive a elevata intensità di investimento.

Debenedetti riconduce questo esito nefasto alla narrativa nazionale della “politica industriale” (intesa come intervento diretto, controllo, da parte dello Stato e della politica su settori e prodotti strategici – come la televisione) che non è mai stata sostituita da una sana “politica per l’industria” e da un serio sviluppo dell’innovazione affidato alla mobilitazione dei cittadini.

Degna epigrafe di questa narrativa è un appunto di Luigi Sturzo del 1957

Il danno principale (dello statalismo) è nel campo della formazione psicologica di un popolo. Il fascismo abolì la partecipazione popolare all’amministrazione al potere della cosa pubblica, rendendo il cittadino estraneo agli interessi comuni; gli statalisti economici di oggi paralizzano lo spirito di iniziativa, il desiderio dell’avventura economica, il senso del rischio, lo spirito di guadagno, per fare del cittadino un funzionario di grandi enti e piccoli enti, con la sola ambizione della promozione, del trasferimento, della gratifica.”

Un vero e proprio “dramma nazionale” e un prodotto da esportazione, visto che il nostro approccio “paternalistico” (maternalistico) al ruolo dello Stato ha profondamente influenzato il giustizialismo peronista in Argentina e il movimento ordi-progressista di Getulio Vargas in Brasile.

Peron

BeneduceVargas

 

 

 

 

 

 

Su questi temi, richiamati dal libro di Debenedetti (buon conoscitore dell’ordo-liberalismo tedesco), vale davvero la pena di riflettere.

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