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22 Gennaio 2016 ~ 0 Comments

A cosa serve la Banca d’Italia?

Negli anni ’70, la Relazione Annuale della Banca d’Italia era lettura obbligatoria in molte facoltà universitarie. Oggi sul sito web della nostra banca centrale è difficile trovare elementi utili per interpretare la crisi.

Il prestigio della banca centrale, il credito e la reputazione dei suoi dirigenti, in particolare dell’Ufficio Studi, erano oggetto di culto tra i giovani studenti e tra gli imprenditori della Prima Repubblica. Nessun’altra istituzione del paese aveva la stessa credibilità. Tanto che nel momento più critico, nella bufera del ’92, nel passaggio alla Seconda Repubblica, la figura di alcuni governatori è stata fondamentale per far fronte alla tremenda pressione dei mercati internazionali.

Banca d'Italia

 

 

 

 

 

 

Prima Carlo Azelio Ciampi e poi Lamberto Dini (direttore generale) furono chiamati a costituire governi tecnici di transizione. E ancor prima di loro altri governatori e dirigenti della Banca d’Italia avevano difeso il sistema finanziario nazionale dai sussulti della scala mobile, dall’inflazione a due cifre, dal debito pubblico galoppante.

Uomini rigorosi, di poche parole e di visione lunga. Che anticipavano il corso degli eventi, con processi decisionali guidati da una profonda conoscenza tecnica e da una rigorosa autonomia dalla politica. Uomini che esercitavano una tacita, ma potente, influenza morale sul sistema bancario (pubblico all’epoca), sulle autorità esterne, sui mercati.

Nella Seconda Repubblica questo tipo di uomini sembra scomparso. E la nostra massima istituzione finanziaria perde ruolo, credibilità e autorevolezza. E non riesce più ad essere organismo di certificazione e di garanzia del risparmio. Assiste impotente agli attacchi speculativi di mezzo mondo. Non è in grado di guidare la ristrutturazione delle popolari. Non dice nulla sull’assorbimento dei crediti incagliati o delle sofferenze.

E’ un esempio drammatico di deterioramento del credito, nelle nostre istituzioni. E non è colpa dell’Europa, del neo-liberismo imperante o delle regole di Basilea. E’ colpa di una incapacità, tutta italiana, di investire sul merito, sul credito delle professioni, promuovendo una classe dirigente all’altezza delle esigenze organizzative di un paese industriale in trasformazione.

Meno chiacchiere sul mercato astratto, più impegno sulla politica industriale, maggiore attenzione su regole e autorità di governo dei mercati concreti. Questa dovrebbe essere la linea di riforma centrale della nostra Pubblica Amministrazione.

 

Pubblicato su Il Giornale di Vicenza del 22 gennaio 2016 (© Il Giornale di Vicenza)

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