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21 Gennaio 2016 ~ 0 Comments

Il mistero della produttività in Italia

L’ultimo bollettino Eurostat ha certificato che nel 2015 l’economia italiana è cresciuta dello 0,8%, sancendo in questo modo la definitiva uscita dalla recessione. Tuttavia, nello stesso bollettino si evidenzia come il nostro Paese continui a crescere meno della media europea, confermando una situazione che dura oramai da 20 anni. Tutte le previsioni indicano che sarà così anche per il 2016. Un basso tasso di crescita (inferiore al 2%) ha implicazioni su diversi fronti. Innanzitutto non è sufficiente a creare occupazione aggiuntiva a un ritmo socialmente accettabile. In secondo luogo vincola la gestione del debito pubblico a ulteriori manovre restrittive di finanza pubblica. Ma soprattutto genera aspettative al ribasso da parte delle imprese più dinamiche e delle componenti più qualificate – dunque anche più mobili – del capitale umano, che saranno così incentivate ad orientare le strategie di investimento verso economie a maggior rendimento. Un numero impietoso è l’indice del reddito pro-capite in rapporto agli altri Paesi avanzati (fig. 1): se all’inizio degli anni ’90 l’Italia veleggiava oltre 5 punti sulla media OCSE, oggi si trova 20 punti sotto!

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Fonte: Dino Pinelli, István P. Székely, Janos Varga 22 December 2015 (www.voxeu.org)

Ma perché l’Italia è cresciuta e continua a crescere così poco rispetto ad altre economie simili? Per rispondere a questa domanda dobbiamo ricordare che i fattori che contribuiscono alla crescita economica sono essenzialmente tre: la variazione del numero di ore lavorate (a sua volta determinata da crescita demografica, tasso di occupazione e regole del mercato del lavoro); l’accumulazione di capitale (generata dagli investimenti in tecnologie, stabilimenti produttivi e infrastrutture, al netto degli ammortamenti); e una componente “residuale”, ma tuttavia decisiva, chiamata produttività totale dei fattori (PTF). Quest’ultima esprime la capacità sociale di impiegare in modo efficiente i fattori produttivi e di introdurre innovazioni che aumentano il valore dei beni e dei servizi. Non ci vuole molto a capire che tanto più un’economia è ad alto reddito, tanto più la sua crescita sarà frutto di un aumento della produttività. Ma è proprio questo il punto debole dell’economia italiana: dal 1994 in poi, mentre le dotazioni di capitale e lavoro crescono in linea con gli altri Paesi, il tasso di variazione della PTF si riduce progressivamente, fino a diventare negativo dopo il 2000 (fig. 2 e 3).

 

Fig.3 – Variazione % dei fattori e produttività totale (TFP) in Italia

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Fonte: Fadi Hassan, Gianmarco I.P. Ottaviano 30 November 2013 (www.voxeu.org)

 

Questo significa che in Italia, nonostante la ricchezza accumulata, non siamo più capaci di organizzare i fattori della produzione a un livello di efficienza e innovazione equivalente alle altre economie avanzate. Ci sono almeno tre ragioni che possono spiegare questo insuccesso.

La prima è il basso investimento in capitale umano qualificato. L’Italia ha raggiunto il triste primato negativo in Europa per numero di laureati sulla popolazione. Non solo siamo lontani dai Paesi nordici e dal Regno Unito, ma siamo dietro anche a Grecia e Romania. Siamo del resto uno dei pochi Paese ad aver ridotto l’incidenza della spesa in istruzione sul Pil, quando la maggior parte, a partire dalla Germania, l’hanno invece aumentata. Inoltre, un laureato su dieci prende la via dell’estero, non trovando in Italia condizioni occupazionali soddisfacenti. Come possiamo immaginare di tenere il passo dell’innovazione tecnologica e organizzativa senza un’adeguata presenza nelle imprese e nelle istituzioni di personale ad alta istruzione?

Una seconda ragione è la drammatica caduta di efficienza della spesa pubblica italiana. I dirigenti delle nostre amministrazioni centrali e locali hanno interpretato i vincoli europei come occasione propizia per smettere di innovare e per rendere ancora più burocratica e incerta ogni decisione. Abbiamo così altri tre infelici record fra i Paesi ad alto reddito: il costo per l’apertura di una nuova impresa (siamo secondi solo alla Corea), il livello percepito di corruzione (in questo caso solo dietro alla Grecia) e la durata delle cause civili (peggio di noi solo Cipro e Malta). Inoltre, nonostante l’alto debito pubblico, continuiamo a patire un deficit infrastrutturale rispetto agli altri Paesi. Ce ne siamo accorti dalla cattiva qualità dell’aria nelle nostre congestionate città, risultato di una minore dotazione di infrastrutture moderne di trasporto metropolitano.

Anche il sistema imprenditoriale ha comunque le sue responsabilità. Non riguarda tutti gli imprenditori certo, tuttavia con l’entrata dell’euro troppe imprese hanno creduto di potersi adattare a bassi profili di rischio, preferendo delocalizzare la produzione e reinvestire i profitti all’estero oppure in attività immobiliari invece che in ricerca, innovazione e capitale umano. Come inoltre sta emergendo dalle crisi di diverse banche, nella cui governance il sistema imprenditoriale ha svolto un ruolo importante, il “capitalismo di relazione” ha avuto spesso la meglio sulla valutazione della qualità e del potenziale innovativo dei progetti di sviluppo.

Questi limiti strutturali rischiano di vanificare gli effetti della ripresa. Se il Paese lavora senza aumentare la produttività, la riduzione della ricchezza è destinata a proseguire. La perdita di valore del patrimonio immobiliare (circa il 15% dal 2008) e di quello investito da centinaia di migliaia di cittadini nel capitale delle banche (crollato anche del 90%), rende tale riduzione drammaticamente tangibile.

Tuttavia, invertire la tendenza è possibile. Ha dunque ragione il Presidente del Consiglio Matteo Renzi a infondere fiducia per la ripresa, spingendo quelle riforme necessarie a liberare il potenziale di crescita del Paese. Ma il cammino è ancora lungo e, soprattutto, non tutte le strade dell’economia passano per Roma. Senza una rinnovata capacità di attivazione di risorse nelle città e nei territori – tema finora sottovalutato dal governo – difficilmente la produttività che manca all’Italia potrà essere recuperata.

 

Giancarlo Corò e Paolo Gurisatti

Pubblicato su Il Giornale di Vicenza del 15 gennaio 2016 (© Il Giornale di Vicenza)

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