La BCE alla guerra delle valute
L’economia globale è un dato di fatto. Da quando Obama ha deciso di allargare la consultazione delle maggiori economie al G20, il vecchio sistema delle economie nazionali è andato in pensione. E’ un dato di fatto che le decisioni relative al controllo del ciclo economico, spettano ormai a quattro o cinque autorità monetarie: la Federal Reserve, la BCE, la Banca d’Inghilterra, la Banca del Giappone e la Banca Popolare Cinese.
Da queste istituzioni dipendono il livello dei cambi, la gestione delle bilance dei pagamenti, il tasso di inflazione e il livello della disoccupazione.
Gli strumenti a disposizione di queste autorità, nonostante il G20, sono ancora piuttosto rudimentali. La partita dell’innovazione si è appena aperta.
La Federal Reserve usa la leva del cambio come strumento di regolazione del mercato interno. Inonda periodicamente i mercati di assegni scoperti e, grazie a quegli assegni, le industrie statunitensi vendono computer, servizi di comunicazione via internet, entertainment e altri prodotti qualificati. Subiscono ovviamente gli effetti periodici delle bolle congiunturali, ma si rimettono in piedi nella stessa maniera: alzando costantemente la posta.
La Banca Centrale Cinese insegue il modello americano e punta a inserire lo Yuan tra le valute di riferimento. E’ molto vicina a raggiungere questo obiettivo, grazie a due tipi di iniziativa: da un lato ha reso fluttuante la propria moneta, per entrare nel FMI; dall’altro sta creando un FMI 2.0 dedicato e controllato dai BRICs. Investe a rotta di collo in tutti i continenti, aumentando la sfera di influenza dei capitali cinesi.
La BCE cerca per forza di cose una strada diversa. Gioca sulla leva monetaria, ma in strenua opposizione ai nazionalisti tedeschi. Non è in grado di stimolare la crescita, perché non dispone di un braccio keynesiano, anti-ciclico, che prenda in mano i problemi dei paesi inondati dal debito. Cerca disperatamente nuovi schemi e nuovi alleati.
Il documento firmato dai cinque presidenti delle istituzioni continentali il 22 giugno è una prima, importante, espressione di indirizzo: unione economica autentica, unione finanziaria, unione di bilancio e unione politica entro il 2025. Ma serve qualcosa di più radicale.
Le nostre esportazioni potranno ripartire e i nostri governi uscire dal patto di stabilità, solo se arriveremo a costruire un nuovo modello di “stato nazione” in Europa. L’argomento non è all’ordine del giorno. Ma, paradossalmente, proprio i paesi in difficoltà possono avanzare una proposta.
Pubblicato su Il Giornale di Vicenza del 15 agosto 2015 (© Il Giornale di Vicenza)