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15 Agosto 2015 ~ 0 Comments

La BCE alla guerra delle valute

L’economia globale è un dato di fatto. Da quando Obama ha deciso di allargare la consultazione delle maggiori economie al G20, il vecchio sistema delle economie nazionali è andato in pensione. E’ un dato di fatto che le decisioni relative al controllo del ciclo economico, spettano ormai a quattro o cinque autorità monetarie: la Federal Reserve, la BCE, la Banca d’Inghilterra, la Banca del Giappone e la Banca Popolare Cinese.

Da queste istituzioni dipendono il livello dei cambi, la gestione delle bilance dei pagamenti, il tasso di inflazione e il livello della disoccupazione.

Gli strumenti a disposizione di queste autorità, nonostante il G20, sono ancora piuttosto rudimentali. La partita dell’innovazione si è appena aperta.

La Federal Reserve usa la leva del cambio come strumento di regolazione del mercato interno. Inonda periodicamente i mercati di assegni scoperti e, grazie a quegli assegni, le industrie statunitensi vendono computer, servizi di comunicazione via internet, entertainment e altri prodotti qualificati. Subiscono ovviamente gli effetti periodici delle bolle congiunturali, ma si rimettono in piedi nella stessa maniera: alzando costantemente la posta.

La Banca Centrale Cinese insegue il modello americano e punta a inserire lo Yuan tra le valute di riferimento. E’ molto vicina a raggiungere questo obiettivo, grazie a due tipi di iniziativa: da un lato ha reso fluttuante la propria moneta, per entrare nel FMI; dall’altro sta creando un FMI 2.0 dedicato e controllato dai BRICs. Investe a rotta di collo in tutti i continenti, aumentando la sfera di influenza dei capitali cinesi.

Yuan

 

 

 

 

 

 

La BCE cerca per forza di cose una strada diversa. Gioca sulla leva monetaria, ma in strenua opposizione ai nazionalisti tedeschi. Non è in grado di stimolare la crescita, perché non dispone di un braccio keynesiano, anti-ciclico, che prenda in mano i problemi dei paesi inondati dal debito. Cerca disperatamente nuovi schemi e nuovi alleati.

Il documento firmato dai cinque presidenti delle istituzioni continentali il 22 giugno è una prima, importante, espressione di indirizzo: unione economica autentica, unione finanziaria, unione di bilancio e unione politica entro il 2025. Ma serve qualcosa di più radicale.

Le nostre esportazioni potranno ripartire e i nostri governi uscire dal patto di stabilità, solo se arriveremo a costruire un nuovo modello di “stato nazione” in Europa. L’argomento non è all’ordine del giorno. Ma, paradossalmente, proprio i paesi in difficoltà possono avanzare una proposta.

 

Pubblicato su Il Giornale di Vicenza del 15 agosto 2015 (© Il Giornale di Vicenza)

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