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04 Aprile 2015 ~ 0 Comments

Scenari di sviluppo delle Venezie Dalla periferia industriale al nuovo paesaggio metropolitano

MDA

 

Giancarlo Corò e Paolo Gurisatti

 

  1. L’evoluzione dell’economia delle Venezie fra identità produttive e nuovo contesto competitivo

In questo capitolo ci si propone di analizzare i processi di aggiustamento strutturale che stanno investendo l’economia delle Venezie, osservando in particolare le relazioni fra i cambiamenti che stanno investendo i modi di produzione e le trasformazioni del territorio. Come amava ripetere il geografo veneziano Gabriele Zanetto, nessun territorio è separabile dall’organizzazione sociale, culturale, economica di chi lo abita. In altri termini, non esiste territorio senza una società che lo costruisca e ne gestisca le trasformazioni. Ma è altrettanto vero che non c’è società, né cultura o economia senza uno spazio che ne concretizzi lo sviluppo e ne consenta la riproduzione. Lo sviluppo di un territorio è d’altro canto sempre l’esito dell’incontro, più o meno fertile, fra i mutamenti delle condizioni esogene – evoluzione culturale e tecnologica, dinamiche competitive, emergere di nuovi protagonisti nella scena mondiale – e le capacità specifiche di una comunità locale di interpretare e inserirsi nella dinamica emergente.

In tale prospettiva, ogni territorio esprime un insieme di risorse specifiche che orientano l’evoluzione dell’economia e della società. Al contempo, i processi di sviluppo imprimono al territorio trasformazioni irreversibili o con elevati gradi di irreversibilità, che a loro volta condizionano lo sviluppo futuro. Questa circolarità fra condizioni e conseguenze dello sviluppo è un elemento imprescindibile per un’analisi sui cambiamenti intervenuti nel paesaggio economico delle Venezie negli ultimi decenni, ma anche per una riflessione sugli scenari futuri. Non c’è dubbio, infatti, che nella fase di intenso sviluppo, compresa tra la seconda metà degli anni ’70 e la prima metà degli anni ’90, il territorio delle Venezie abbia fornito una infrastruttura fondamentale per la crescita estensiva del capitalismo della piccola impresa, venendo allo stesso tempo ridisegnato dalla crescita impetuosa della manifattura. Una manifattura che trova nel Nord Est e in altre aree della Terza Italia una possibile via di uscita dal fordismo, e che grazie all’affermazione dei distretti e delle reti di piccole e medie imprese accredita la “nuova periferia industriale” come modello tendenzialmente centrale del capitalismo nazionale.

Nell’epoca più recente, dominata dai processi di apertura globale degli scambi e delle catene produttive, lo spazio delle Venezie ha iniziato a cambiare nuovamente ruolo e identità. Da Nord Est del capitalismo italiano sta diventando sempre più Sud Est del capitalismo europeo in trasformazione. In tale capitalismo, la dimensione metropolitana sembra emergere come matrice di riferimento ineludibile per lo sviluppo regionale. Infatti, se la “nuova periferia industriale” è cresciuta anche grazie a un tessuto urbano e infrastrutturale ben distribuito su tutto il territorio regionale, si è venuta creare nel corso del tempo una “città diffusa” sempre più estesa e integrata che oggi rischia, in assenza di un governo di scala metropolitana, una progressiva perdita di efficienza, qualità e attrattività. Il sistema delle Venezie non può dunque rimanere indifferente a un simile scenario. La modifica dei rapporti tra industria e territorio che porta verso la formazione di uno spazio metropolitano – con il superamento della dimensione distrettuale e dei tradizionali bacini di servizio, amministrazioni pubbliche incluse – ne costituisce la conferma più evidente.

 

  1. Frontiere del cambiamento: tre chiavi di lettura

Per sviluppare un’analisi sui cambiamenti intervenuti nell’economia delle Venezie riteniamo necessario esplicitare tre chiavi di lettura. La prima, cui abbiamo appena fatto cenno, è che già nel corso degli anni ’90 ha cominciato ad incrinarsi l’equilibrio competitivo che aveva consentito all’economia del Nord Est di crescere e affermarsi come una delle aree industriali di maggior successo in Europa. L’emergere di nuove condizioni tecnologiche (in particolare con la diffusione dell’ICT e il ruolo sempre più centrale delle conoscenze scientifiche nella produzione di beni e servizi), geo-economiche (con la rapida crescita dell’Asia, dell’America Latina e dell’Europa Centro-orientale nella produzione industriale e nell’attrazione di investimenti) e monetarie (con l’affermazione del regime macro-economico dell’euro), costringono le imprese e le stesse istituzioni ad avviare profondi processi di riorganizzazione. La forte crescita demografica e industriale che dal dopoguerra aveva accompagnato per quattro decenni lo sviluppo del Nord Est, subisce all’inizio del millennio una brusca frenata, con un mutamento nella composizione delle attività economiche che non si era mai sperimentato prima. Dagli anni ’50 al 2001 la popolazione delle Venezie aumenta di un quinto (da 5,8 milioni a 7 milioni di abitanti), mentre gli addetti alla manifattura risultano quasi triplicati (da 350mila a un milione di occupati), segnando uno scarto netto rispetto al resto d’Italia, dove la contrazione dell’industria inizia già nei primi anni ‘90. Tuttavia, fra 2001 e 2011 nelle Venezie la manifattura perde 30mila imprese e ben 240mila occupati, mentre sono i servizi a prendere il sopravvento, con una crescita che, come vedremo più avanti, ridisegna profondamente i confini dei sistemi produttivi e la stessa identità sociale dell’area.

La velocità di questo cambiamento ci porta subito alla seconda ipotesi: in quanto espressione di un capitalismo imprenditoriale, l’economia delle Venezie non è affatto rimasta ferma di fronte alle sfide competitive, ma ha reagito con determinazione alla ricerca di nuovi percorsi di sviluppo. Seguendo le definizioni di David Audretsch e di William Baumol, con l’espressione “capitalismo imprenditoriale” intendiamo un modello sociale di produzione basato su una molteplicità di agenti economici che operano in mercati aperti, i quali effettuano continuamente investimenti a rischio su nuovi prodotti, nuovi servizi e nuovi processi di creazione del valore. Diversamente da altri modelli economici – che possono vedere un ruolo più attivo dello Stato nell’economia, oppure avere una struttura oligopolistica dei mercati e una funzione centrale delle grandi imprese – il capitalismo imprenditoriale è un sistema economico meno organizzato, ma proprio per questo più aperto alle sperimentazioni. Perciò, molto più predisposto ad introdurre innovazioni di tipo incrementale e, in alcuni casi, anche radicale. I percorsi di adattamento e di esplorazione innovativa che l’economia delle Venezie ha intrapreso a partire dalla seconda metà degli anni ’90 non hanno ancora portato ad un assestamento definitivo. In ogni caso, nel guardare a come il capitalismo imprenditoriale cerca di superare le crisi e adattarsi al nuovo contesto competitivo, bisogna evitare di compiere alcuni errori. Innanzitutto di confonderlo con un sistema atomistico di piccole imprese in competizione fra loro, privo di istituzioni e di imprese di maggiori dimensioni che, per loro natura, tendono a costruire regole di stabilità e ad allungare l’orizzonte di ritorno degli investimenti. In realtà, per poter funzionare il capitalismo imprenditoriale presuppone una forte complementarità fra piccola impresa, media impresa e grandi gruppi, superando quella contrapposizione che spesso ha viziato l’analisi sulle dimensioni aziendali. Ma tale capitalismo ha bisogno anche di adeguate istituzioni: il mercato non riuscirebbe infatti a funzionare in modo efficiente senza un insieme di regole e norme sociali in grado di ridurre i costi di transazione e assicurare adeguate dotazioni di beni collettivi e capitale fisso sociale. Un altro errore da evitare è pensare che l’esplorazione imprenditoriale porterà, dopo una dura selezione competitiva, a un unico modello di sviluppo. Una one best way, se mai c’è stata, non è certo la soluzione che ha senso cercare per uscire dalla crisi. Né, del resto, è una strada unica che si intravede nella realtà e nei progetti di innovazione dell’economia delle Venezie.

La terza chiave di lettura è proprio questa: il capitalismo imprenditoriale che anima l’economia e la società delle Venezie sta da tempo esplorando diversi percorsi di innovazione, che non sono affatto fra loro alternativi, ma che si integrano e sovrappongono dando vita a combinazioni originali. I percorsi che hanno assunto o cominciano ad assumere contorni più definiti sono almeno i seguenti:

  • più qualità, differenziazione e significati complessi nei prodotti manifatturieri, che si manifestano, in particolare, nello sviluppo di una “industria su misura” e del “lusso accessibile”, nella riscoperta dell’autenticità e della creatività artigiana, nella valorizzazione dei prodotti agro-alimentari tipici, nel valore di esperienza dell’ospitalità turistica;
  • più tecnologia nell’industria, sia attraverso un aumento del contenuti digitali nei prodotti e nei processi manifatturieri (dalle reti di comunicazione agli sviluppi della manifattura additiva), sia con una ricomposizione settoriale a vantaggio dei beni strumentali (meccatronica, automazione, impianti), e delle forniture specializzate (componentistica complessa, chimica fine, farmaceutica);
  • più internazionalizzazione, nel senso che le imprese più dinamiche della regione hanno da un lato ampliato i mercati di riferimento e, dall’altro, hanno riorganizzato la produzione in catene globali del valore, adottando perciò ampi gradi di libertà nel definire le scelte localizzative per ogni specifica attività. Più in generale, le imprese esplorano lo spazio globale alla ricerca di opportunità di mercato, di informazioni e conoscenze, di altre imprese, persone e risorse con cui creare un legame utile alla propria strategia competitiva;
  • più servizi all’interno dell’industria e attorno ad essa, al punto che la tradizionale distinzione fra secondario e terziario (in alcuni casi anche con il primario) sta perdendo progressivamente significato, e fa invece emergere diverse filiere neo-industriali in cui il tratto unificante diventa la crescente intensità di conoscenza impiegata nella produzione di beni e di servizi;
  • più servizi non solo orientati alla competitività delle imprese, ma anche alla condivisione sociale e alla qualità di vita delle persone, che ha progressivamente spostato la domanda verso prodotti orientati al ben-essere, come documenta la crescita di occupazione e nuova imprenditorialità nei settori della salute, della cultura, dell’ambiente, dell’ospitalità, dell’edilizia sostenibile.

Queste linee di adattamento, innovazione e riposizionamento costituiscono risposte che l’economia delle Venezie sta fornendo ai cambiamenti sociali, tecnologici e dei mercati. Come vedremo fra poco, queste strategie cercano di rispondere alla ricerca di un equilibrio più avanzato fra cambiamenti dello scenario competitivo e identità locale, di cui il paesaggio è fattore fondamentale. Un aspetto che non dovrebbe mai essere sottovalutato in un’analisi economica è che la “storia conta”, nel senso che natura, cultura e istituzioni di una comunità imprimono all’economia una traiettoria che limita i possibili vantaggi comparati su cui risulta profittevole investire. Questo fenomeno di path dependence segnala l’esistenza di vincoli e opportunità specifiche che condizionano il percorso di sviluppo di un sistema economico. Un percorso, perciò, che nella sua evoluzione rimane, sia pure in misura diversa da caso a caso, sempre collegato a quanto avvenuto nelle fasi precedenti. La storia di un territorio – che è fatta anche di relazioni sociali, cultura materiale e specializzazioni produttive – non può, dunque, essere azzerata. Come ha mostrato Brian Arthur, la storia conta anche quando si generano innovazioni tecnologiche radicali, perché la creazione di nuovi artefatti, la sperimentazione di nuovi processi, lo sviluppo di nuovi mercati prendono corpo dalla combinazione di conoscenze, relazioni ed esperienze accumulate nel passato e ancora disponibili nel presente. Tuttavia, dire che la storia di un territorio conta non significa rimanere prigionieri del passato. I sistemi socio-economici cambiano con il procedere del loro sviluppo. Questo avviene sia perché cambiano le condizioni al loro esterno, sia perché con lo sviluppo si modifica anche al loro interno il quadro delle preferenze e la capacità degli attori.

È nel guardare a questo complesso ma fertile rapporto fra identità e cambiamento che ha preso le mosse la riflessione sugli scenari economici presentata di seguito.

In particolare, nei prossimi capitoli ci soffermiamo su tre delle nuove frontiere del cambiamento che risultano coerenti con le tendenze di sviluppo delle Venezie: la prima è quella della nuova manifattura, basata sulla valorizzazione dell’autenticità e dei beni di esperienza, ma sempre più integrata con le tecnologie digitali e le catene globali del valore; la seconda è rappresentata dai servizi ad elevata intensità di conoscenza, che non si contrappongono all’industria, ma ne stanno in realtà allargando i confini, sviluppando funzioni immateriali sempre più importanti nel processo di creazione del valore; la terza, infine, è rappresentata dalle “nuove industrie” della qualità sociale, che non sono soltanto business emergenti, ma anche modelli di riorganizzazione delle attività tradizionali, in direzione di sistemi organizzativi, tecnologici e di consumo più sostenibili dal punto di vista ambientale e sociale.

Questi tre scenari – nuova manifattura, servizi avanzati, qualità sociale – rappresentano già oggi tendenze rilevanti per l’economia delle Venezie, con implicazioni che vanno anche oltre i confini dei settori direttamente coinvolti. Infatti, rispetto al tradizionale modello di crescita industriale, questi cambiamenti hanno un impatto molto diverso sulle modalità d’uso del territorio e richiedono, perciò, anche nuovi modelli e livelli di governo. Su questo punto gli ostacoli maggiori derivano dall’assetto amministrativo, che oppone una resistenza naturale alla domanda di riorganizzazione dello spazio produttivo. La crisi finanziaria del 2008 e i successivi provvedimenti di riforma stanno tuttavia introducendo cambiamenti importanti anche a questo livello e aprono varchi di mobilitazione per la società imprenditoriale più interessata a creare uno spazio metropolitano.

 

  1. La nuova manifattura: autenticità, tecnologia, apertura internazionale

L’affermazione sulla scena mondiale dell’economia dei distretti e delle piccole imprese del made in Italy si manifesta fin dai primi anni ‘70 in corrispondenza di un cambiamento della domanda, che sposta progressivamente le preferenze dei consumatori dai prodotti standardizzati di massa verso beni differenziati e di qualità, in precedenza riservati a fasce limitate del mercato. Una nuova generazione di beni per la persona, per la casa, per l’alimentazione, assieme alle tecnologie per produrli e confezionarli, assume sempre più consistenza nel commercio internazionale, ridisegnando la struttura di specializzazione dell’economia italiana.

Questo mutamento della domanda verso beni differenziati – e quindi il superamento del modello di produzione e consumo basato su beni standardizzati di massa – non costituisce affatto un fallimento del fordismo, ma può essere considerato l’esito del suo successo: la sofisticazione dei consumi per larghe fasce della popolazione – e non solo per poche élites – non è altro che la conseguenza del forte processo di sviluppo che contraddistingue le economie industriali nel dopoguerra, che ha portato alla diffusione delle condizioni di benessere nella società e, in particolare, all’affermazione di una sempre più consistente classe media affluente. Inoltre, la sofisticazione dei consumi è anche l’esito di un processo di apprendimento dei consumatori stessi. Ciò vale per prodotti complessi, come le automobili e gli elettrodomestici, ma anche per quelli apparentemente più semplici, come i prodotti alimentari, l’abbigliamento o i beni per la casa: anche in questi casi, quando il consumo supera la soglia di “prima dotazione”, nella domanda si formano elementi di gusto, stile, significati complessi, il cui effetto è accrescere la varietà e la variabilità della domanda. Di fronte alla crescita di complessità del consumo, la struttura di offerta non poteva rimanere neutrale.

Come hanno descritto magistralmente Piore e Sabel (1984), è proprio il rapido mutamento della domanda a segnare una nuova via allo sviluppo economico del secolo scorso. Questa nuova via apre la possibilità di superare la produzione di massa a favore di un modello di “specializzazione flessibile”, dove le piccole imprese e i sistemi produttivi locali non svolgono più un ruolo residuale, ma sempre più centrale nel processo di accumulazione e distribuzione della ricchezza.

L’emergere in Italia, e in particolare nel Nord Est, dell’economia dei distretti avviene, dunque, sull’onda di un processo di trasformazione più generale, che oltre ai modelli di consumo coinvolge anche la tecnologia e l’apertura degli scambi. Il made in Italy diventa così, allo stesso tempo, simbolo di qualità dei prodotti, ma anche elemento di un originale “modo di produzione”, che va oltre il lavoro di fabbrica, per recuperare dimensioni sociali, culturali e politiche.

Tuttavia, anche questa storia di successo dello sviluppo italiano incontra, ad un certo punto, il suo limite. Con il cambiamento dello scenario competitivo che si afferma nella seconda metà degli anni ’90, i vantaggi della specializzazione flessibile non sono più da soli sufficienti per tenere il passo di uno sviluppo mondiale che cambia decisamente prospettiva. Se in una prima fase le piccole imprese e i distretti erano riusciti ad inserirsi in uno spazio di mercato che le grandi imprese avevano lasciato scoperto, ora la situazione cambia nuovamente.

Da un lato, l’innovazione nelle tecnologie di rete restituisce ai grandi gruppi industriali quelle condizioni di flessibilità che prima erano appannaggio dei sistemi di piccole e medie imprese, rendendo possibile mantenere il controllo su estese reti di produzione, che si allungano sempre più nelle aree produttive a basso costo delle economie emergenti.

Dall’altro lato, è proprio l’emergere sulla scena mondiale di queste economie a trasformare le condizioni di domanda e offerta. Per quanto riguarda l’offerta, la prima ondata di crescita delle produzioni low cost si trova a concorrere sui tipici settori di specializzazione del made in Italy, quali abbigliamento, calzature, borse, arredo, in ragione delle più basse barriere all’entrata che contraddistinguono questi settori. Anche se il differenziale di qualità sui prodotti rimane elevato, è indubbio che il made in Italy viene messo subito sotto pressione dalla concorrenza a-simmetrica dei new comers, che contribuiscono così a ridisegnare i vantaggi comparati dell’economia dei distretti. Inoltre, lo sviluppo delle nuove economie crea anche una corrispondente crescita di domanda finale, con un ritorno di importanza dei beni standardizzati di massa per servire mercati di prima dotazione. A tutto questo c’è poi da aggiungere il passaggio al regime monetario dell’euro, che contribuisce a mettere ulteriormente in sofferenza i distretti italiani, riducendo la competitività delle esportazioni e aumentando la convenienza delle stesse imprese distrettuali a delocalizzare la produzione nelle economie emergenti, alla ricerca di più convenienti condizioni competitive.

Va precisato che la strategia di delocalizzazione produttiva, che si è diffusa in misura consistente proprio nelle regioni del Nord Est, deriva dal cambiamento di ruolo della manifattura locale nella divisione internazionale del lavoro. Per molte imprese lo spostamento all’estero delle attività a maggiore intensità di lavoro ha rappresentato una scelta necessaria per continuare a crescere in uno scenario profondamente diverso dal passato. Inoltre, essere presenti nelle economie emergenti ha offerto alle imprese l’occasione di conoscere e presidiare nuovi mercati, nei quali si stava formando una classe media con disponibilità a pagare e cultura di consumo sempre più orientata alla qualità dei prodotti.

Tuttavia, è indubbio che quanto si sviluppa nella seconda metà degli anni ’90 cambia significativamente le condizioni di vantaggio competitivo delle piccole imprese e dei distretti industriali del made in Italy. In particolare, molti beni differenziati di massa vengono prodotti a condizioni più convenienti da grandi gruppi transnazionali dotati di adeguate tecnologie e da efficienti sistemi logistici e distributivi, che possono più facilmente accedere ai potenziali a basso costo delle economie emergenti. E’ così che diversi marchi italiani del made in Italy avviano processi di riorganizzazione internazionale che portano al cosiddetto made by Italy: un modello produttivo in cui si mantengono nella base domestica le funzioni immateriali della catena del valore –ricerca, progettazione, sviluppo dei prodotti, oltre a marketing, finanza, organizzazione logistica – ma spostando all’estero le operazioni manifatturiere.

Questo modello porta vantaggi immediati alle imprese, in quanto nel breve periodo si assiste ad una significativa riduzione dei costi di produzione, mantenendo il valore del marchio e un certo controllo sulla qualità. Nel medio-lungo termine i vantaggi tendono però a ridursi a causa dell’effetto combinato dell’indebolimento delle capacità manifatturiere nella base domestica e della crescita di costi e autonomia industriale nelle nuove aree di produzione.

Proprio a questo punto si affaccia una nuova svolta e la frontiera della qualità si sposta in avanti, arricchendosi di nuovi contenuti e capacità comunicative che portano a dare più valore alle esperienze di consumo, all’autenticità della produzione, sviluppando una nuova concezione di lusso accessibile.

In un saggio scritto alla fine degli anni ‘90 da Joseph Pine e James Gilmore viene proposta un’idea interessante per spiegare il differenziale di prezzo di alcuni beni-servizi in relazione alla modalità di consumo. La chiave di lettura per comprendere il significato di economia delle esperienze viene fornita dagli autori richiamando una tipica situazione vissuta da molti turisti in Italia: quella di un caffé consumato ad un tavolo del Florian, in Piazza San Marco a Venezia. Prima di arrivare al tavolo del Florian il caffé ha fatto una lunga strada, subendo diversi processi di trasformazione. Ad ogni passaggio viene aggiunto uno specifico valore economico al prodotto originario, fino ad arrivare al prezzo finale. Il caffé nasce come commodity alimentare, con un valore per tazza equivalente a circa 2-3 centesimi di dollaro. Quando poi subisce la trasformazione industriale può raggiungere alla distribuzione un valore di circa 25 centesimi. Una volta che il caffé viene servito al banco di un bar, il prezzo pagato sarà nell’ordine di un dollaro. Ma se viene consumato in un tavolino del Florian, lo stesso identico caffé può tranquillamente raggiungere i 15 dollari!

Seguendo dunque la catena del valore del caffé, la conclusione degli autori è che il valore maggiore non viene creato dalla trasformazione industriale, e nemmeno nel servizio (al bar), bensì dall’esperienza di consumo. E tanto più l’esperienza è unica, autentica e densa di significati, tanto maggiore è il valore economico che le viene riconosciuto dal consumatore. Secondo Pine e Gilmore, nell’economia moderna questo fenomeno è molto più diffuso di quanto si pensi, ed è destinato a crescere ulteriormente.

E non è un caso che i due autori prendano spunto proprio da un’esperienza veneziana come caso esemplare della propria teoria.

Molti prodotti del made in Italy possono assumere il valore di beni di esperienza e autenticità: dall’ospitalità turistica, alle tipicità alimentari e viti-vinicole, all’artigianato artistico, all’industria su misura, alle stesse griffe della moda e del design, che oltre a vendere un prodotto comunicano significati di identità e appartenenza.

L’economia delle esperienze e dell’autenticità ha anche dal lato dell’offerta alcuni aspetti interessanti da mettere in risalto. Innanzitutto è importante il legame con la storia, la cultura, le capacità specifiche di un territorio produttivo, che diventano parte essenziale della qualità del bene o del servizio venduto. Questo aspetto può sembrare scontato per il turismo, dove l’ambiente – naturale o storico – costituisce una componente fondamentale dell’attrattività del servizio. è evidente anche per le produzioni alimentari e viti-vinicole, in particolare quando la denominazione di origine assume un ruolo chiave nella valutazione dei consumatori. Tuttavia, può essere importante anche per i prodotti manifatturieri che esprimono una eccellenza collegata ad una tradizione artistica, artigianale o anche industriale del territorio, soprattutto quando riescono a re-interpretare questa tradizione in chiave moderna, integrandola con le nuove tecnologie e arricchendola grazie a dialoghi in rete con comunità di consumatori di tutto il mondo.

Un altro aspetto da richiamare è il fatto che nell’economia delle esperienze tendono chiaramente a prevalere le piccole e medie imprese. La necessità di mantenere la massima attenzione alla qualità sulle diverse fasi del ciclo di trasformazione, contribuisce a ridurre la soglia di produzione efficiente. In altri termini, tendono a prevalere le diseconomie di scala dovute ai costi di controllo diretto del processo produttivo e di servizio, anche se ciò non esclude che per alcune attività complementari dove i rendimenti sono invece crescenti – ad esempio la promozione e la tutela del marchio, oppure la commercializzazione e il presidio dei mercati esteri – sia necessario associare le imprese in progetti comuni.

Un terzo aspetto che è utile sottolineare è la possibile integrazione e gli spillover reciproci fra attività collegate all’economia delle esperienze. I servizi di ospitalità turistica acquistano maggior valore se si associano a iniziative culturali originali, prodotti artigianali di qualità, un’offerta alimentare tipica. Allo stesso tempo, essere parte di un circuito turistico fornisce alle attività culturali e alle produzioni tipiche un canale di accesso a nuove aree di domanda.

Si stanno inoltre sviluppando nuovi servizi di personalizzazione offerti dalle imprese commerciali in stretta interazione con quelle di produzione, che possono aumentare di valore, se collocati in ambienti appositamente costruiti per favorire lo scambio e il co-working tra progettista e utente. Negli ultimi anni sono cresciuti spazi di questo tipo anche grazie alla diffusione di nuovi strumenti di comunicazione e alle tecnologie digital manufacturing (stampanti 3D e altri sistemi analoghi di co-progettazione). Essere parte di un circuito produttivo e turistico integrato fornisce agli operatori nuovi modelli di produzione-consumo e canali inediti di comunicazione e sviluppo delle relazioni con la domanda anche per le industri tradizionali.

Nell’area delle Venezie c’è un numero crescente di imprese posizionate sulla frontiera dell’autenticità-tipicità-esperienza. Esiste quindi un grande potenziale per avviare iniziative e nuovi progetti di sviluppo. Ma per crescere in questa direzione le imprese hanno bisogno di territori accoglienti e coerenti, in grado di esprimere quella identità culturale di cui i prodotti hanno bisogno per rendersi riconoscibili nell’economia mondiale.

 

  1. Servizi ad alto contenuto di conoscenza

Il secondo scenario di cambiamento che ci interessa approfondire è animato dai servizi del terziario avanzato e ad alto contenuto di conoscenza erogati da imprese private e in alcuni casi anche da fornitori di tipo istituzionale. Questi servizi sono emersi come ambito specifico di ricerca all’inizio degli anni novanta, quando l’idea di società post-industriale si era affacciata anche nel Nord Est. Da allora un consistente numero di studi teorici ed empirici è stato prodotto su questo argomento. I primi contributi identificavano nel trasferimento unidirezionale di informazione e conoscenza da un sistema emergente di imprese private e strutture pubbliche dedicate all’innovazione (parchi scientifici, BIC, incubatori di start-up innovative) verso le imprese manifatturiere, come una sorta di nuovo decentramento di funzioni dalle grandi imprese integrate al territorio. I contributi più recenti, invece, mettono in risalto un più complesso processo di interazione e co-produzione di conoscenza che coinvolge le imprese di servizio e quelle manifatturiere, anche alla luce di due fatti importanti: il ruolo che la conoscenza tacita riveste in tale processo e l’elevato grado di personalizzazione che in genere caratterizza i servizi knowledge-intensive.

Le attività ad elevato contenuto di conoscenza e innovazione costituiscono non solo un interessante oggetto di studio, ma anche un importante driver di trasformazione degli spazi produttivi.

I servizi avanzati comprendono una lista abbastanza ampia di settori economici, quali ad esempio le telecomunicazioni, i servizi informatici, le attività di ricerca e sviluppo (pubbliche e private), gran parte dei servizi alle imprese, ma anche attività che si nascondono in categorie e classi apparentemente meno avanzate, quando non all’interno delle filiere manifatturiere. Un caso emblematico è la composizione dell’occupazione della principale impresa calzaturiera italiana, Geox, che ha la sede principale a Montebelluna. All’interno di questa azienda, dei circa 3mila addetti presenti nel territorio nazionale, meno del 2% è impegnato in operazioni manifatturiere! Almeno un terzo è invece impiegato nelle funzioni terziarie a monte della catena del valore: direzione, progettazione, ricerca, sviluppo dei prodotti, marketing, comunicazione e logistica. La maggioranza è comunque occupata nella rete distributiva. Ciò nonostante, essendo Geox classificata come impresa manifatturiera, dal punto di vista statistico l’occupazione risulta di tipo industriale.

Non è dunque facile ricavare dati precisi sul fenomeno dei servizi ad alto contenuto di conoscenza. Tuttavia, la maggior parte degli studiosi ritiene che il numero delle imprese e degli occupati registrati in una determinata area geografica, nell’insieme dei settori citati, costituisca una buona proxy (magari per difetto) della presenza di servizi avanzati in quel territorio. In tal senso, alcune ricerche hanno documentato che nell’area delle Venezie il numero di imprese di servizi avanzati si avvicina oramai alla soglia delle 60mila unità, e anche nel periodo di crisi questo comparto ha mostrato un notevole dinamismo. Se si osserva il fenomeno nell’arco del decennio censuario 2001-2011, nell’insieme delle Venezie l’occupazione nei servizi alle imprese è cresciuta di oltre 100mila addetti. Un dato molto rilevante, che allinea oramai quest’area ai livelli medi nazionali, ma che la lascia ancora indietro rispetto al Nord Ovest. E’ dunque ragionevole attendersi che la tendenza degli ultimi anni sia destinata a proseguire.

Oltre al rilievo appena menzionato, vi sono altri due aspetti relativi all’individuazione dei servizi ad elevato contenuto di conoscenza e innovazione che meritano di venire considerati. Li citiamo perché il loro interesse trascende la dimensione metodologica, ricollegandosi entrambi ad alcuni dei percorsi di innovazione già richiamati in questo capitolo.

Il primo è in realtà complementare al precedente: in qualsiasi settore di attività, anche non compreso tra quelli indicati finora, sia esso di servizi o manifatturiero, vi può essere un’impresa o un’organizzazione che – per tipo di output prodotto e relazione con i clienti – è del tutto assimilabile o comunque molto vicina a un centro di trasferimento tecnologico. Ad esempio, in molte imprese industriali che operano in settori business to business – come nel caso della meccanica strumentale, degli impianti, della chimica di specialità, ecc. – la componente di servizio risulta molto elevata e talvolta addirittura supera in valore il prodotto tangibile, in quanto l’attività oltre all’alto contenuto di conoscenza è fortemente personalizzata. Imprese medie specializzate in componenti critiche di prodotti finali (assali per trattori o pompe per lavatrici o prodotti chimici per la lavorazione della pelle) sono di fatto centri di trasferimento tecnologico di filiere, spesso globali, all’interno delle quali svolgono funzioni accreditate di R&S, nonostante siano formalmente collocati nel settore statistici della manifattura.

Anche i settori del terziario tradizionale, i servizi logistici ad esempio, possono ospitare imprese con un elevato coefficiente di produzione di conoscenza in ragione della specificità del servizio offerto, ma anche e soprattutto del ruolo assunto nella filiera e nei processi di relazione con i clienti (piattaforme logistiche dedicate al capo appeso oppure ai marmi e graniti oppure ancora ai componenti per auto sono di fatto centri di ricerca in miniatura). Anche queste imprese, strutturalmente, si distinguono in modo netto dal resto della popolazione settoriale a cui appartengono, anche se non possono essere identificate dal ramo statistico di appartenenza.

Il secondo aspetto consiste invece nel fatto che ogni organizzazione contiene, al suo interno, dipartimenti tecnici e di ricerca che erogano servizi a elevato contenuto di conoscenza ad altri dipartimenti della medesima struttura. Questa idea è alla base del concetto di catena del valore proposto da Michael Porter ed è stato ripreso recentemente da studiosi della localizzazione delle industrie high tech e della classe creativa come Richard Florida e Enrico Moretti.

Comunque lo inquadriamo, l’universo delle attività a elevato contenuto di conoscenza ha avuto un forte sviluppo nell’area delle Venezie, negli ultimi dieci anni, una crescita trainata dalla densità molto elevata della domanda, dentro i tipici distretti industriali, “tra” distretti industriali e nelle medi imprese. Pur trattandosi di unità produttive la cui dimensione media è molto piccola, l’insieme delle imprese e dei dipartimenti innovativi contribuisce oggi in modo non marginale alla produzione di valore aggiunto nell’ambito delle rispettive economie regionali.

Una ricerca empirica condotta su queste attività nel Veneto ha messo in evidenza che in un campione di 505 imprese, molte presentano tratti distintivi omogenei, in particolare realizzano servizi di una certa complessità, caratterizzati mediamente da un elevato livello di personalizzazione, per i quali diventa indispensabile interagire con la clientela. La ricerca ha anche individuato un certo numero di unità produttive che si differenziano nettamente dal resto del campione, mostrando un profilo decisamente più evoluto.

Queste unità specializzate sono mediamente più grandi e operano con una clientela diversificata sotto il profilo geografico, che supera ampiamente i confini del mercato locale (ad esempio, del distretto industriale in cui hanno sede). Esse sono distribuite in tutti i quartieri delle Venezie, ma tendono a concentrarsi nell’area compresa tra Padova, Treviso e Venezia.

Guardando in retrospettiva l’evoluzione di questo comparto verrebbe da concludere che le attività di cui si parla non stiano in realtà trasformando in misura rilevante il paesaggio economico delle Venezie. Questo per due ragioni:

  • da un lato perché molte attività knowledge intensive (soprattutto di carattere tecnico) rimangono all’interno dei sistemi manifatturieri e dei distretti con cui interagiscono;
  • dall’altro perché una vera downtown riconosciuta, anche dal punto di vista sociale, oltre che architettonico, non c’è ancora.

Tuttavia queste attività emergenti non mancheranno di esercitare un progressivo impatto sulla qualità degli spazi produttivi e della stessa organizzazione logistica delle Venezie. Quanto meno perché sono attività ad alta densità di relazioni tra le persone, più che di flussi logistici delle merci. Hanno bisogno di sistemi di comunicazione, trasporto e interazione molto diversi da quelli passati.

Per questa ragione esse esercitano già un’influenza forte sui processi di trasformazione di alcuni quartieri, come la zona di Padova Est, oppure l’asse direzionale di Via Torino a Mestre o il quadrante di Tessera. E’ probabile che, in un futuro non lontano, in altre zone delle Venezie si svilupperanno distretti a forte vocazione di servizi avanzati. Le politiche regionali di sostegno ai centri di innovazione (Rete NEST, IRC, rete dei parchi scientifici del Veneto o dei centri di ricerca del Trentino e del Friuli, Fondazione Kessler e Area Science Park) hanno finora concentrato le aziende del settore a fianco di quelle manifatturiere nelle aree industriali disponibili. Questa tendenza però ha reso complicato il processo di aggregazione territoriale di attività affini e non è destinato a durare in futuro.

 

  1. L’economia della qualità sociale

Il successo economico del Nord Est nasce da una solida base produttiva di piccole e medie imprese, specializzate in alcune filiere dell’industria manifatturiera fortemente orientate all’export. In questo modello di sviluppo, la “fabbrica” non ha costituito solo un elemento che ha profondamente segnato il paesaggio, ma lo snodo attorno a cui si è organizzata una parte rilevante della vita individuale e collettiva.

Tuttavia, tale rappresentazione corre anche il pericolo di deformare la lettura di una realtà economica e sociale che, come abbiamo visto nei precedenti paragrafi, sta cambiando molto più rapidamente di quanto i tradizionali schemi concettuali riescano ad ammettere. Sia chiaro, non si tratta di contestare l’idea che lo sviluppo del Nord Est o delle Venezie sia fortemente caratterizzato dall’industria. E molti elementi contenuti in questa nostra riflessione dicono che lo sarà anche in futuro. Ma per continuare a crescere, l’industria delle Venezie è destinata a trasformarsi, e contribuire così a trasformare anche il contesto economico, sociale e territoriale nel quale è insediata. Del resto, che qualcosa di importante sia già cambiato in questi anni ce lo suggerisce, anche visivamente, il mutamento del paesaggio industriale, dove alle consuete destinazioni “produttive” contenute nei tradizionali capannoni industriali, si affiancano e si sostituiscono nuove funzioni di servizio: dalle attività commerciali ai centri direzionali, dalle palestre ai centri di benessere, dagli studi medici ai laboratori di analisi, dalle discoteche alle sale per spettacoli.

In un certo senso, queste trasformazioni potrebbero essere vissute come una perdita, come il segno inequivocabile che un modo di produrre e competere attraverso la vera industria sta definitivamente tramontando. E che, di conseguenza, anche la ricchezza creata attraverso quel modo di produzione viene messa a rischio, per essere sostituita da attività sempre più immateriali. Un termine, quest’ultimo, che porta con sé la dissoluzione di quel senso di rassicurante solidità tecnica, economica e occupazionale che l’industria, nel bene e nel male, era riuscita comunque a garantire.

Una tale rappresentazione contiene però un errore. Quello di credere che l’unico modo per creare valore, occupazione e reddito sia riconducibile alla trasformazione manifatturiera e alla capacità di vendere su altri mercati. In realtà, non bisogna perdere di vista un aspetto diventato fondamentale proprio nelle economie moderne e più aperte agli scambi internazionali: una parte crescente dell’attività produttiva è collegata ai servizi di prossimità.

Questa trasformazione è una conseguenza del successo, non del declino, dell’industria. Infatti, l’incremento dei servizi di prossimità è dovuto principalmente alla crescita di produttività ottenuta nell’industria manifatturiera, che a sua volta è il risultato sia degli avanzamenti tecnologici, sia della profonda riorganizzazione internazionale dei processi produttivi. Com’era avvenuto per l’agricoltura, questi progressi hanno reso possibile all’industria produrre più beni con sempre meno lavoratori. Allo stesso tempo, hanno creato risorse economiche aggiuntive e una nuova domanda per servizi che, diversamente dai prodotti industriali, hanno sia una crescita molto più lenta della produttività, sia l’esigenza di essere prodotti contestualmente al consumo. Se, infatti, per produrre un paio di scarponi da sci, un mobile oppure un computer, si richiede oggi un numero sempre più limitato di lavoratori e i mercati di destinazione possono essere molto lontani dai luoghi di produzione, non è così per visitare un paziente in una casa di cura, per tenere un corso di insegnamento a scuola o per assistere al concerto di un quartetto di Mozart.

Quest’ultimo riferimento richiama direttamente il classico contributo fornito da William Baumol per spiegare la crescita del welfare state come conseguenza del cambiamento dei prezzi relativi fra industria e servizi. In estrema sintesi, il ragionamento di Baumol era il seguente: il crescente divario di produttività fra industria e servizi, non compensato da un equivalente differenziale nel costo del lavoro fra i diversi settori, avrebbe reso sempre meno conveniente alle economie di mercato fornire servizi, in particolare quelli che hanno natura pubblica e relazionale. Tuttavia, essendo i servizi indispensabili allo sviluppo stesso dell’industria, questa situazione avrebbe comportato una progressiva crescita del ruolo dello Stato come fornitore diretto (in gestione) o indiretto (tramite sussidi) di servizi. L’ipotesi di Baumol, che prospettava all’orizzonte una crisi fiscale dello Stato, è stata in parte confermata: basti ricordare che in Europa la quota di spesa pubblica sul Pil è passata dal 30% del dopoguerra al 50% di oggi (negli Usa, le quote corrispondenti sono 10% e 35%). Ma questa ipotesi è stata messa in discussione da due condizioni che nella formulazione originaria erano state sottovalutate. La prima è che molti servizi hanno vissuto una significativa crescita di produttività, beneficiando in particolare del salto tecnologico della rivoluzione digitale. La seconda è che i rapporti fra mercati si sono autonomamente riorganizzati, e l’offerta nel terziario è stata trainata anche da una domanda crescente di servizi di prossimità richiesti sia dalle imprese, sia dalle famiglie. In altri termini, il processo di redistribuzione della crescita di produttività industriale non è avvenuto solo attraverso la leva fiscale, ma anche grazie all’evoluzione della struttura economica.

Su questo punto insiste da tempo Paul Krugman (1996), che ha documentato in modo convincente come una parte sempre più considerevole del lavoro nelle economie moderne – in particolare nelle aree metropolitane più ricche del pianeta – sia orientato a servire mercati locali. Questo avviene perché le cosiddette attività “di base”, quelle cioè dedicate a produrre beni per i mercati esteri, richiedono un insieme di servizi che, per loro natura, devono essere offerti localmente e il cui costo viene dunque pagato anche grazie alla crescita di produttività di tutta l’economia. Per quanto possa sembrare paradossale, se l’economia sta diventando più locale è dunque anche a causa del successo dei processi di globalizzazione.

In questa prospettiva, la distinzione fra attività “di base” e “non di base” risulta sempre meno netta, in quanto all’interno dei beni esportati c’è una quota crescente di valore espresso da servizi forniti localmente. E viceversa. Michael Porter ha messo bene in luce questo rapporto. Studiando i livelli retributivi all’interno di diversi cluster produttivi, Porter ha rilevato una relazione diretta e significativa fra industrie orientate all’export e servizi di prossimità. Innanzitutto, l’autore evidenzia come nei principali cluster americani le economie di prossimità (local) hanno un peso dominante e crescente rispetto alle attività sottoposte a concorrenza internazionale (traded). Se questa situazione costituisce, evidentemente, un effetto del divario di produttività, anche i redditi dovranno alla fine registrare delle differenze. Tuttavia, laddove i redditi dei settori traded sono più elevati, anche i redditi delle attività local aumentano. Questo risultato è stato confermato anche dagli studi consotti da Enrico Moretti sulla nuova geografia del lavoro negli Stati Uniti. In questa analisi il settore di base non è più l’industria in quanto tale, bensì l’innovazione, cioè la funzione in grado di creare nuovi prodotti e nuovi processi che poi si affermeranno nei mercati globali. Secondo Enrico Moretti, per ogni occupato nel “settore dell’innovazione”, nascono nello stesso territorio almeno altri cinque posti di lavoro nei servizi di prossimità.

Questo processo tende inoltre ad autoalimentarsi. Come abbiamo visto analizzando i servizi ad alta intensità di conoscenza, economie più aperte e con maggiori dotazioni tecnologiche creano una domanda locale di servizi a elevato contenuto di conoscenza: in questo senso, se le relazioni distrettuali sono in parte superate, emergono tuttavia nuove relazioni di scala metropolitana che disegnano lo spazio entro il quale contenere una parte significativa delle interazioni fra domanda e offerta di servizi. Ma c’è un altro aspetto importante da considerare: economie più aperte e con maggiori dotazioni tecnologiche hanno un riflesso anche nel mercato locale del lavoro, accrescendo la domanda di figure professionali più elevate e con redditi maggiori. Questi cambiamenti nel mercato del lavoro si ribaltano, a loro volta, nei mercati di consumo, accrescendo la domanda di servizi alla persona, in particolare per la salute e il benessere, la cultura, i viaggi, lo sport, la casa. Tutti questi servizi, cui si aggiungono oggi quelli collegati allo sviluppo di una sensibilità ambientale ed energetica, presentano una elevata elasticità al reddito, e sono perciò destinati a crescere come conseguenza dello sviluppo stesso.

I dati su questo fenomeno non sono ancora assestati, anche perché alcune sue dimensioni tendono a sfuggire alle tradizionali rilevazioni statistiche. In ogni caso, basti rilevare che nelle Venezie il solo settore dei servizi alloggio e ristorazione è cresciuto nell’ultimo decennio censuario di 10mila imprese e 90mila addetti. Un altro tipico servizio di prossimità come il commercio è aumentato di altri 70mila addetti, mentre i servizi per la salute e l’assistenza sono cresciuti di 30mila occupati. Se tuttavia si guarda anche alle attività non-profit, nelle Venezie i numeri parlano di un fenomeno di massa: 40mila unità locali (cresciute del 50% dal 2001 al 2011), 120mila addetti (+40%), oltre 600mila volontari (aumentati di un terzo).

Può sembrare riduttivo guardare ai servizi di prossimità come ad uno scenario di sviluppo, specie per un’economia a forte tradizione industriale, e da sempre abituata a competere sui mercati internazionali. Eppure, proprio questi servizi stanno già oggi rappresentando per le economie più avanzate del pianeta una delle più promettenti frontiere di crescita. Perché non dovrebbe diventarlo anche per le Venezie?

 

  1. I territori di un’economia neo-industriale

Le filiere che abbiamo fin qui considerato non mostrano netti confini settoriali. Anzi, nei casi più interessanti tendono ad intrecciarsi: maggiore contenuto di esperienza, servizi innovativi e rapporto con nuovi stili e nuove etiche del consumo disegnano, nel loro insieme, il carattere più promettente delle imprese future.

Un aspetto che vale qui sottolineare è che nei processi di innovazione osservati il legame con la storia e con il territorio non viene affatto meno, ma si ridefinisce sotto altre forme, dimensioni e domande. Se questo fenomeno di path dependence appare intuitivo per le filiere dell’autenticità e dei beni di esperienza, è tuttavia presente anche per i servizi avanzati e per le nuove industrie della qualità sociale.

Per le filiere dell’autenticità il rapporto ascrittivo con il territorio costituisce una componente fondamentale della qualità di offerta. Questo aspetto è evidente quando si tratta di vendere prodotti che incorporano direttamente componenti ambientali specifiche – come nel caso del vino e dei prodotti agro-alimentari, oppure in quello del turismo. Ma è importante anche quando nel valore finale di un prodotto sono contenuti saperi e tradizioni lavorative radicate a un luogo, come avviene in diverse filiere del made in Italy attive nei territori delle Venezie: dal vetro artistico di Murano alle calzature di alta gamma nella Riviera del Brenta, dall’estrazione del porfido in Val di Cembra alla lavorazione dei marmi in Valpolicella, dal trattamento delle pelli nella Valle del Chiampo alla capacità di innovazione nella meccanica dell’Alto vicentino, dalla cultura della casa e del mobile in Friuli a quello per le calzature da montagna e per l’abbigliamento sportivo di Montebelluna, fino alla produzione degli occhiali nel bellunese. L’insieme dei saperi e dei mestieri legati a queste produzioni non sono facilmente replicabili al di fuori del contesto sociale e produttivo in cui si sono fermati. Se la globalizzazione ha aperto enormi potenziali per delocalizzare la produzione in aree a basso costo del lavoro, non ha tuttavia allineato le culture produttive sottostanti ai processi industriali, che continuano a svolgere un ruolo importante nel garantire la qualità finale ai prodotti.

Uno stretto rapporto con il territorio produttivo vale, in particolare, quando entrano in gioco esigenze di efficienza e innovazione della produzione. E’ il caso dell’industria su misura e di tutti quei prodotti a elevata personalizzazione che richiedono non solo una logistica reattiva, ma anche ciò che David Lane definisce un “sistema di mercato” orientato all’innovazione: un contesto di interazioni ripetute fra agenti economici attorno ad una famiglia di artefatti in continua evoluzione. La cultura sociale e produttiva che alimenta questo sistema di mercato è in realtà un “bene comune industriale” cui possono accedere, con limitati vincoli di esclusione, le imprese di un territorio. Tuttavia, come per altri beni comuni, anche in questo caso è presente il pericolo di un loro sfruttamento eccessivo, in particolare se mancano volontà e capacità di attivare adeguati meccanismi di riproduzione. Il ruolo del sistema dell’istruzione tecnica e poli-tecnica è in questo caso fondamentale, specie se collegata alle vocazioni del territorio e parte attiva della loro evoluzione.

C’è infine un altro aspetto, relativamente recente, che tende a legare l’autenticità produttiva e i beni di esperienza al territorio: quello della distribuzione diretta e del turismo commerciale. Per i prodotti alimentari questo aspetto viene oggi riproposto sotto il termine di “kilometro zero”, ma interessa anche altri settori. Per i prodotti manifatturieri esso riguarda il sistema delle fiere specializzate, la politica degli outlet aziendali e dello shopping industriale. Questa dimensione commerciale del territorio è sicuramente da recuperare, poiché tiene conto della possibilità che i consumatori oggi hanno, grazie ai minori costi di trasporto e alla più ampia disponibilità di informazioni, di spostarsi anche su grandi distanze per raggiungere i luoghi di origine dei prodotti. Con un duplice obiettivo. Da un lato la disintermediazione consente sia al produttore che al consumatore di appropriarsi di una parte del valore altrimenti assegnato alla distribuzione; dall’altro, si crea un’interazione diretta che accresce l’apprendimento del consumatore e svolge una funzione indiretta di tutela della proprietà industriale e dell’originalità dei prodotti. Anche questi sviluppi tendono a trasformare i paesaggi produttivi, imponendo più di prima l’attenzione alla qualità dell’ambiente, che diventa sempre più parte di una politica per la qualità del prodotto.

Bisogna tuttavia sottolineare che il rapporto ascrittivo fra impresa e territorio non è lo stesso del passato. Da un lato, le comunità di consumo con le quali i produttori locali devono entrare in relazione sono dislocate in luoghi molto diversi dell’economia mondiale, e per comunicare in modo efficace sono necessari linguaggi e tecnologie sofisticate, non sempre disponibili localmente. Dall’altro, per mantenere alta la qualità dei prodotti, i saperi tradizionali non sono da soli sufficienti, ma devono essere integrati con conoscenze scientifiche, tecnologiche e manageriale sempre più specializzate e, allo stesso tempo, universali. Questo gioco fra locale e globale è fondamentale per accrescere la capacità del territorio di promuovere l’eccellenza.

Per i servizi avanzati il rapporto impresa-territorio si sviluppa in modo diverso rispetto all’industria. Il processo di smaterializzazione della produzione conseguente alla crescita di servizi ad alto contenuto di conoscenza sembrerebbe, in prima ipotesi, allentare le relazioni con la base domestica delle imprese. Questo dovrebbe avvenire, in particolare, quando ad esprimere la domanda di conoscenze sono le imprese dei distretti industriali, dove la carenza di servizi ad elevata qualificazione – R&D, design, trasferimento tecnologico, tutela della proprietà intellettuale, comunicazione, finanza, ecc. – è un fattore connaturato ai vantaggi comparati del territorio. Tali servizi hanno, del resto, proprie economie di localizzazione, che per lo più si esprimono nei centri urbani e nelle aree metropolitane, perciò distanti dai tradizionali insediamenti distrettuali. Non a caso le imprese leader dei distretti indicano sempre più spesso Padova e Milano, quando non addirittura Londra o New York, come mercati di approvvigionamento dei loro servizi. Tuttavia, in molti casi le attività ad elevato contenuto di conoscenza e innovazione non hanno carattere di servizi standard o codificati, che possono perciò essere venduti a distanza senza perdere valore informativo. In realtà, essi richiedono un’interazione continua con gli utilizzatori. Interazione che non ha solo la funzione di comprendere le esigenze della domanda e personalizzare l’offerta, ma anche di produrre nuova conoscenza utile, che può essere poi codificata e venduta ad altre imprese.

Questo bisogno di interazioni fra domanda e offerta di servizi avanzati definisce, dunque, uno spazio di relazioni ravvicinate, che tuttavia non coincide quasi mai con i tradizionali confini distrettuali, ma richiede, semmai, una dimensione regionale o metropolitana. E’ infatti all’interno di uno spazio metropolitano che è possibile creare un nuovo equilibrio fra economie di scala dei servizi innovativi ed economie di prossimità richieste dalla necessità di scambiare e condividere conoscenze complesse. Per molti distretti, dunque, il problema non è abbandonare la dimensione locale delle specializzazioni produttive – bacini professionali specializzati, relazioni di filiera, culture del prodotto – quanto diventare parte di una nuova dimensione sovra-locale, sia in termini di infrastrutture di trasporto, sia come componente territoriale di una metropoli regionale, ricca di domanda ma anche di stimoli innovativi, in grado perciò di attirare talenti e far crescere servizi ad alto contenuto di conoscenza.

Per le filiere della qualità sociale, in quanto espressione di servizi di prossimità rivolti in via prioritaria alla popolazione residente, il territorio torna nuovamente ad essere un elemento costitutivo del processo di creazione del valore economico. Tuttavia, anche in questo caso il rapporto non è affatto banale. I servizi afferenti le filiere della qualità sociale – salute, cultura, sostenibilità – creano valore economico in stretta relazione con conoscenze e tecnologie sviluppate a monte. Per quanto la distribuzione locale richieda un’attività di adattamento che non è quasi mai mera replicazione, il valore nelle diverse fasi della filiera non è certo equivalente. Ad esempio, una visita medica specialistica può essere un servizio di prossimità, ma il suo valore dipende anche dalle tecnologie di diagnostica prodotte magari in un altro continente, dove, dunque, va trasferita una parte delle risorse pagate per il servizio. Lo stesso ragionamento può valere quando si applica un impianto solare o geotermico ad un’abitazione, oppure per un gruppo musicale o per uno spettacolo teatrale, dove l’esecuzione locale ha valore nella misura in cui c’è stata a monte, magari in altri luoghi, la creazione dell’opera.

Tutto questo porta dunque a considerare l’esigenza di accrescere, per quanto possibile, il valore creato localmente all’interno di queste importanti filiere dell’economia futura. Dal punto di vista della politica economica locale non si tratta solo di assecondare e sostenere nuovi modelli di consumo, coerenti con la ricchezza accumulata e le mutate condizioni socio-professionali della popolazione, ma anche di fare di questi consumi una leva per nuove attività ad elevato valore aggiunto, con l’obiettivo di trasformare la fase finale della filiera di un servizio in un’occasione per rafforzare il tessuto imprenditoriale e creare nuove specializzazioni produttive. Esempi in questa direzione non mancano nelle Venezie: dalla medicina rigenerativa a supporto del comparto alimentare e farmaceutico, al rinnovato rapporto fra creatività culturale e nuova manifattura, alle innovazioni in campo energetico e ambientale grazie agli sviluppi della bioedilizia.

Il cambiamento dell’economia delle Venezie indica con chiarezza il grande potenziale di queste nuove frontiere.

 

  1. L’impatto delle trasformazioni economiche su paesaggio e identità delle Venezie

La crescita delle attività economiche sin qui considerate non può non avere un impatto sul territorio e sulle strategie di sviluppo delle Venezie dei prossimi anni. Il sistema regionale ha intrapreso un percorso lungo e accidentato per uscire dalla crescita industriale estensiva che ha segnato lo sviluppo dagli anni ’60 agli anni ’90, per organizzare un nuovo spazio metropolitano capace di collaborare e competere con le regioni europee più evolute.

In questa stessa prospettiva è intervenuto nel 2009 anche la Territorial Review dell’Ocse, confermando le caratteristiche metropolitane dell’area centrale del Veneto all’interno di un territorio policentrico ad elevato sviluppo, ma mettendo tuttavia in luce anche alcune criticità nel confronto con altre aree metropolitane europee. In particolare, le principali criticità segnalate sono collegate alla dotazione di capitale umano, agli investimenti in innovazione, alla struttura demografica e al sistema del trasporto pubblico e delle infrastrutture. Dalle criticità l’Ocse ha fatto derivare un insieme di azioni strategiche che riguardano, in particolare, i seguenti punti:

Sviluppare la capacità di innovazione: creare un sistema di innovazione regionale per accrescere la competitività e attrarre investimenti esteri; sviluppare i legami tra università e imprese; aumentare l’offerta di servizi di business development per le piccole e medie imprese;

Promuovere l’inclusione nel mercato del lavoro: incentivare la partecipazione femminile al mercato del lavoro, anche potenziando le strutture di assistenza all’infanzia; promuovere l’integrazione degli immigrati e favorire l’attrazione di lavoratori specializzati attraverso politiche attive di ricerca e selezione; assicurare iniziative di formazione continua per i lavoratori anziani;

Potenziare i collegamenti fra Venezia, Padova e Treviso: rendere finalmente operativo il Servizio Ferroviario Metropolitano Regionale; creare collegamenti ferroviari con gli aeroporti; accrescere la densità insediativa in alcuni nodi ad alta accessibilità per ridurre il consumo di suolo;

Salvaguardare l’ambiente: includere i temi ambientali nelle strategie di sviluppo economico, in particolare nell’ambito della gestione delle risorse idriche e della sicurezza idraulica, della gestione dei rifiuti, delle politiche energetiche.

In definitiva, secondo l’Ocse, è necessario dare una dimensione metropolitana alle politiche economiche, infrastrutturali e ambientali delle Venezie. Questo significa impostare la pianificazione territoriale a scala metropolitana, allineando le strategie dei territori in una logica di sviluppo comune. Secondo l’Ocse gli strumenti per raggiungere tali obiettivi possono riguardare accordi specifici di settore – in particolare su trasporti, cultura, turismo – e la progressiva estensione della cooperazione intercomunale sulle funzioni amministrative e di servizio. Inoltre, non va sottovalutata l’importanza di concentrare attenzione e risorse su alcuni progetti comuni strategici, con l’obiettivo di rafforzare un’identità metropolitana e creare un terreno concreto di dialogo tra le amministrazioni locali.

Il nuovo scenario europeo dopo la crisi del 2008 ha reso le azioni indicate dall’Ocse ancora più urgenti. L’accelerazione del cambiamento sta infatti costringendo l’economia del Nord Est verso una deviazione inaspettata. Lo stesso ritorno del concetto di “Venezie” rappresenta bene la tensione verso un nuovo modello di sviluppo. Quello nato negli anni ’70 come alternativa al sistema nazionale della grande industria, il modello della “nuova periferia industriale” ben descritto da Anastasia e Rullani all’inizio degli anni ’80, ha oramai esaurito la sua forza propulsiva. La vitalità delle piccole imprese manifatturiere e la proiezione esterna dei distretti non sono più l’unico driver dello sviluppo locale. Altri tipi di investimento sono entrati in campo e trascinano l’identità del territorio e delle stesse istituzioni regionali verso una nuova dimensione.

In realtà, non sono in crisi i distretti industriali e le piccole imprese. Sta andando in crisi lo schema territoriale della fabbrica e della zona industriale per ogni campanile, ma anche dei centri direzionali, formativi e logistici basati su una logica “provinciale”. Per partecipare alle sfide della globalizzazione i settori emergenti hanno bisogno di uno schema territoriale nuovo: un’organizzazione metropolitana delle forze produttive, dei servizi, della manifattura, delle piattaforme logistiche, delle stesse funzioni urbane.

Nell’epoca dei capitalismi nazionali, l’industria del Nord Est che si è diffusa nella campagna urbanizzata ha svolto a lungo la funzione di piattaforma di servizio per la Germania e gli altri sistemi produttivi del Centro Europa. Oggi sta diventando un’altra cosa: un nodo produttivo e logistico del capitalismo globale. Di conseguenza dovrà diventare uno spazio più metropolitano per il Sud Europa – Nord Est dell’Italia, parte dell’Austria, della Slovenia e dell’area balcanica – con una forte autonomia, ma anche con una nuova “identità”.

La discussione sui nomi – Spazio metropolitano delle Venezie, Venice City Region, Venice Manufacturing District – rappresenta l’esigenza di una nuova narrazione del Nord Est come nodo globale riconoscibile dall’esterno. Non solo le Venezie hanno bisogno di essere riconosciute in Europa, ma anche bisogno di entrare in relazione stabile con gli altri poli metropolitani dell’economia globale.

Questa esigenza nasce dal basso. Dalle imprese dei servizi innovativi ad elevato contenuto di conoscenze (come il Museo di arte contemporanea della Fondazione Bisazza o il paesaggio neo-rurale di H-Farm), dalle agenzie di rigenerazione urbana e di progettazione dei servizi (come il Porto di Venezia o il sistema Aeroportuale di Tessera), dalle università e dalla rete di istituti tecnici superiori distribuiti nei territori dei distretti.

C’è una domanda di integrazione che lentamente si fa strada nella coscienza collettiva e scuote dalle fondamenta le istituzioni territoriali nate per aiutare la manifattura. Ci sono movimenti contro i capannoni, emblema del vecchio sistema industriale, e movimenti in favore di una nuova agricoltura e di un turismo che superi i limiti del modello di massa a basso valore aggiunto. Ci sono azioni finalizzate al superamento delle province e dei monopoli nei servizi pubblici locali. Ci sono spinte alla costruzione di unioni comunali e di una rete di infrastrutture non più centrata sulla sempre più angusta dimensione provinciale o cittadina, ma sulle relazioni di scala metropolitana e fra sistemi metropolitani nazionali ed europei.

Questa domanda di nuovo spazio di relazioni non potrà non generare nuove architetture nella costruzione degli spazi produttivi. Molto probabilmente la separazione tra aree industriali e residenziali sarà superata dall’esigenza di integrare attività produttive, sempre meno materiali, con servizi di ricerca e innovazione e servizi alla persona. I quartieri produttivi del futuro potranno essere più estesi di quelli attuali e molto più articolati dal punto di vista della varietà delle costruzioni e degli spazi verdi o agricoli. E non è affatto remota l’ipotesi di un ritorno della manifattura nelle città, dove i tradizionali spazi commerciali si stanno ridimensionando a favore di attività che sanno invece coniugare produzione e consumo, ricerca e applicazione, formazione e sperimentazione. Questa spinta è evidente nelle nuove organizzazioni produttive del co-working, dei campus di ricerca e innovazione, dei laboratori politecnici collegati ai distretti e alle specializzazioni industriali. E’ probabile che gli stessi centri storici e alcune aree industriali divengano terreno di sperimentazione per nuovi servizi abitativi, in linea con la crescita dei servizi legati alla qualità sociale. La domanda di ri-generazione degli spazi urbanizzati, della liberazione di nuovi suoli per il verde e la produzione agricola integrata con nuove funzioni urbane e nuovi stili di vita, rispettosi dell’ambiente e dell’economia circolare.

Perfino gli spazi dedicati al turismo, alle esperienze e all’autenticità del territorio italiano potranno cambiare ruolo e stile. La crescita del turismo imprenditoriale e dei prosumers interessati alla nuova manifattura non potrà non influenzare il ridisegno degli spazi manifatturieri dei centri pedemontani. Capannoni tutti uguali non restituiscono l’identità del luogo e sarà perciò necessario ri-progettarne forma e funzioni non solo per ragioni economiche ed energetiche, ma anche per comunicare la qualità, la complessità, l’origine culturale dei prodotti.

In conclusione, il quadro descritto ci aiuta a intravedere un paesaggio delle Venezie molto diverso da quello attuale. Paradossalmente, grazie alle spinte impresse dall’innovazione dell’economia locale come dalle profonde trasformazioni del mondo in cui viviamo, il paesaggio futuro potrebbe in realtà recuperare molte delle qualità ambientali e culturali del passato, messe a rischio dalla crescita estensiva della nuova periferia industriale. Il modo di vivere e competere nella globalità non passerà necessariamente per l’omologazione, ma anche per una valorizzazione delle differenze e della propria originalità. In tale prospettiva, l’economia e il paesaggio delle Venezie hanno molte risorse su cui contare.

 

 

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