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03 Ottobre 2013 ~ 1 Comment

Trento, Trieste, Palermo. Una “struttura narrativa” (irredentista) per i territori al margine del Bel Paese

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Trento – Trieste – Palermo. Una “struttura narrativa” (irredentista) per i territori al margine del Bel Paese.

 

Ho provato a digitare la sequenza dei tre nomi per vedere se qualcuno ha mai avviato un confronto sulle autonomie italiane. Non è emerso nulla di concreto, ma sono certo che molti abbiano lavorato sul tema da prospettive convergenti (politiche, culturali, letterarie ed economiche).

Una nuova proposta di ricerca nasce dalla seguente intuizione. Esiste un denominatore comune a questi territori, al margine dell’Italia unita. Sono territori “redenti”, all’interno di uno schema nazionale che consegna ai colonizzatori “piemontesi/romani” (per auto-acclamazione interpreti autentici dello standard italiano) poteri e ruoli che fanno a pugni con l’identità, la cultura e le consuetudini locali.

Sono territori nei quali si consuma da un secolo (e più) la medesima tragedia.

Dall’aspettativa dell’irredentismo, della partecipazione ad un progetto culturale di modernizzazione nazionale (in un’Italia nuova capace di fare sintesi delle migliori energie disponibili nei diversi territori), si è passati, proprio in questi territori, al senso di oppressione, di omologazione, di colonizzazione culturale, dipendenza da un’idea di “standard” di conduzione della “res-publica” che fa a pugni con le migliori esperienze locali, con la ricchezza dei vari territori, con il desiderio di sviluppo autonomo e redenzione indipendente, secondo modalità avanzate e “più moderne” di quelle suggerite dal genio italico di qualche burocrate “romano” (nativo o acquisito non fa differenza). C’è la netta percezione di un passaggio in negativo, dall’Austria e dal Regno delle Due Sicilie alla mediocritas italiana (arbitraria e confusa).

In questi territori l’esperienza nazionale è vissuta come esperienza negativa, come tradimento, retrocessione. Percezione, questa, cantata con successo dalle avanguardie culturali locali, come problema esistenziale. Ha portato spesso a movimenti autoctoni caratterizzati da posizioni estreme, di rifiuto e contrapposizione. E’ il caso del Trentino e soprattutto dell’Alto Adige tedesco-austriaco (che ha prodotto figure come Langer o il movimento degli schutzen). E’ caso della Venezia Giulia, che produce la diaspora “irredentista” di Magris, Saba e Biagio Marin. E anche di Palermo, intesa come capitale di una provincia italiana, annessa dai garibaldini, che era uno stato e si ritrova “margine” nello schema nazionale. Eppure produce avanguardie come Verga, Pirandello, Tomasi di Lampedusa, Sciascia e Camilleri, oltre a esperienze politico-sociali ambigue come la mafia. E’ il caso del Veneto dell’economia diffusa, all’interno del quale monta la ribellione cieca della Lega. Nel quale tuttavia tengono ancora le imprese narrative di Meneghello, Rigoni Stern e gli altri che si richiamano all’epico ricordo della Grande Guerra.

Tracce di una “narrative” comune sono presenti in molte espressioni letterarie di questi territori che si sono imposte a livello nazionale (non a caso !).

In Sciascia, ad esempio, è il capo mafioso Mariano Arena a emanare la legge universale a cui conformarsi (eroe positivo nel racconto):

« Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) piglia inculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, chè mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini… E invece no, scende ancor più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi…E ancora più giù: i piglia inculo, che vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, chè la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre… Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo…  » (Il giorno della Civetta)

In Tomasi di Lampedusa troviamo la caustica definizione dell’avvento del Regno d’Italia: “Cambiare tutto, perché nulla cambi”. Passaggio ripreso, a livello globale, come sintesi estrema del “gattopardismo” italiano, della nostra tragedia nazionale.

« I Siciliani non cambieranno mai poiché le dominazioni straniere, succedutesi nei secoli, hanno bloccato la loro voglia di fare, generando solo oblìo, inerzia, annientamento (il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di “fare”. [….] il sonno è ciò che i Siciliani vogliono). Garibaldi è stato uno strumento dei Savoia, nuovi dominatori (” da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere a un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento […] ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio). Questi avvenimenti si sono innestati su una natura ed un clima di violenti, che hanno portato ad una mancanza di vitalità e di iniziativa negli abitanti (….questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; [….] questo clima che ci infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; [….] questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo….)  ». (Wikipedia alla voce “Il Gattopardo”).

Nella letteratura siciliana figure negative diventano i personaggi principali, caratteri dell’identità locale giustamente ribelle a “Roma”.

Per non citare le stilettate anti-romane e anti-burocratiche che rendono gustoso il racconto “dialettale” di Camilleri, in bocca a Montalbano (non a caso emulo di Pepe Carvalho, rappresentante estremo della secessione Catalana…). Sono un grido di rivolta per l’indipendenza e si affiancano quasi obbligatoriamente al recupero di una tradizione locale sana (v. Il Birraio di Preston e altri racconti storici).

In Marin (poeta dialettale di Grado) e Claudio Magris (riconosciuto rappresentante della cultura mitteleuropea) troviamo elementi analoghi, di commistione tra letteratura alta e impegno politico-culturale.

« intanto da tutta Italia si riversò qui (a Gorizia dopo la Prima Guerra Mondiale) un’onda di avventurieri e di speculatori, che con nuovi e da noi inusitati sistemi sfiancavano ogni iniziativa dei goriziani. (…) Continuava ad essere in vigore la legge austriaca, ma per fregarci ci fregavano con quella austriaca e quella italiana, mentre per aiutarci l’austriaca era austriaca. Siamo intesi?  ». (Il problema di Gorizia)

E si potrebbe aggiungere Luigi Meneghello, altro emigrato di lusso della nostra vicenda patria, unico cantore (non a caso dialettale anche lui, come Pasolini) dell’epopea veneta della piccola impresa e della campagna urbanizzata, ante litteram. E Marco Paolini con il suo Vajont…

Ma fermiamoci qui, su questi indizi.

C’è, in tutte queste “storie” un elemento comune, una ”struttura narrativa forte” che sostiene molto più di una semplice appartenenza o vicinanza culturale: sostiene un irresistibile rifiuto della “mediocritas” italico-romana e di un ordinamento che punta al centro come punto di eccellenza, confondendo il puro arbitrio nazionale, la confusione bizantina e la mediocrità arrogante dei despoti romani, con il sogno da tutti condiviso.

Non è possibile riconoscersi in questa “melassa”, in uno “standard” nazionale, che offende la dignità dei cittadini e delle imprese.

Partire dalla “resistenza” e dall’irredentismo dei territori può essere un espediente utile a ritrovare il senso di un federalismo più avanzato, per l’Italia e per l’Europa.

One Response to “Trento, Trieste, Palermo. Una “struttura narrativa” (irredentista) per i territori al margine del Bel Paese”

  1. Carlo 3 Ottobre 2013 at 23:07 Permalink

    Il Gattopardo dopo gli equilibrismi romani di ieri mi sembra una citazione puntuale.


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