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12 Luglio 2013 ~ 0 Comments

Social Innovation. The new frontier of the European Commission. La nuova frontiera della Commissione Europea

Il valore dei social network e dei personal media è diventato evidente durante la Primavera Araba. La società in ebollizione, nel Nord Africa e nel Medio Oriente, ha dato senso a strumenti e tecnologie che possono davvero cambiare il modo di fare informazione e comunicazione anche da noi.

Da qualche tempo la Commissione Europea sta guardando con crescente interesse a questi fenomeni, confinati nella sfera dell’innovazione sociale. Social innovation, per essere corretti dal punto di vista linguistico. Barroso e gli alti tecnocrati di Bruxelles cominciano a capire che gli investimenti destinati alla ricerca, in quanto tali, sono solo un pezzo, e neanche il più importante, dei processi di innovazione di cui abbiamo bisogno. Un I-phone o un I-pad diventano innovazione quando sono riconosciuti, metabolizzati e accreditati dalla società, utilizzati per cambiare regole e consuetudini di mercato e non solo.

Senza la mobilitazione della società, dunque, manca un pezzo. Fondamentale. Senza interazione sociale, attorno ai nuovi artefatti, non c’è crescita, non c’è sviluppo nel senso più ampio del termine. I dirigenti della Commissione se ne sono accorti. E pensano di investire sulla società civile, per organizzare in Europa “cascate di reazioni” più intense e diffuse attorno alle idee prodotte dai centri di ricerca, dalle imprese e dalle università.

Bandiera UE

 

 

 

 

 

 

 

E’ un cambiamento di prospettiva importante, che ci porta molto lontano dall’approccio di Lisbona. Un approccio quantitativo, basato sull’idea che l’innovazione derivi da maggiori investimenti in ricerca e sviluppo, sic et simpliciter.

A distanza di anni la Commissione ammette che il vero cambiamento “cammina con le gambe” della gente. Quando intere comunità di persone, più e meno competenti dal punto di vista tecnico, si misurano “attivamente” con la tecnologia, si attiva un circuito virtuoso dell’innovazione. Mentre, senza un meccanismo ampio e dinamico di valutazione, le risorse investite in ricerca servono a poco o nulla.

Per tornare ad essere competitiva l’Europa deve trovare un modo più efficace e produttivo di mobilitare la propria società.

Alcuni ricercatori (David Lane, ad esempio, dello European Centre for Living Technologies di Venezia) ritengono che strutture organizzative più globali e flessibili, come Slow Food e Eataly per l’alimentare o il movimento dei “Makers” per le industrie di progetto, possano servire allo scopo. Le hanno chiamate “scaffold”, impalcature, di nuovi sistemi di mercato. Dicono che hanno un peso crescente, nei processi di cambiamento, superiore a quello delle vecchie associazioni, dei distretti, delle aggregazioni opportunistiche di impresa e anche di molte grandi imprese multinazionali. E che possano essere progettate.

Che abbiano ragione? Che sia possibile promuovere, anche da noi, nuove comunità locali per l’innovazione, più adatte al mondo globale e a una moderna idea di Europa?

 

Pubblicato sul Giornale di Vicenza del 12 luglio 2013 (© Il Giornale di Vicenza)

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