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24 Agosto 2021 ~ 0 Comments

Per una pace sostenibile e resiliente

La ritirata delle forze occidentali dall’Afghanistan, pone una serie di problemi morali ed etici, che non intendo discutere, ma anche problemi pratici. Il primo è: come costruire la pace dopo l’uso della forza?

In Occidente la maggioranza delle nazioni ripudia la violenza, come strategia utile per risolvere le contese territoriali e culturali. Ne ammette l’impiego in condizioni eccezionali, in casi di “legittima” difesa, o quando gruppi sociali entrano in conflitto tra loro. E, per questa ragione, la maggioranza della nazioni investe su competenze e tecnologie di corpi professionali, delegati all’uso della forza. La ratio dell’investimento pone tuttavia l’accento sulle tecniche di intervento “chirurgico”, in emergenza, e non sulle attività di pacificazione sociale e culturale, post-operatorie. Un po’ come accade nel campo della salute: l’investimento sulla medicina di territorio è ampiamente inferiore all’investimento sugli ospedali.

Eppure, i governi dei territori dilaniati dalla guerra civile, come i Paesi Baschi, l’Irlanda del Nord o il Sud-Africa, hanno imparato che servono dispositivi sofisticati e potenti di pacificazione. Insomma, il tema è sottovalutato dai paesi dell’UE, da quelli che aderiscono alla NATO e da Israele.

In Afghanistan le forze di occupazione (anche le nostre) hanno assunto il compito di eliminare le bande di terroristi e dei signori dell’oppio, che hanno messo a repentaglio la sicurezza dei cittadini occidentali. Tuttavia non sono riuscite, nonostante le cospicue risorse ricevute, a raggiungere l’obiettivo. Sono state chiamate a “costruire la pace”, aiutando i cittadini afghani interessati a uno stile di vita non regolato dalla sharia, a costruirsi un futuro, ma anche su questo piano hanno fallito.

Allora dobbiamo riflettere. Problemi analoghi sono presenti all’interno del mondo Occidentale, laddove l’uso della forza è necessario per sedare conflitti tra componenti della società. In Italia, ad esempio, il G8 di Genova, la gestione dei migranti nel Mediterraneo e, nel suo piccolo, la guerra contro i no-vax, sono lì a dimostrare che le cicatrici dei conflitti sociali e degli interventi d’imperio non si rimarginano facilmente.

Morale. Senza adeguati investimenti nel peace keeping, non si va molto lontano. La conciliazione tra componenti sociali non può essere affidata al caso o al volontarismo, meritorio, delle ONG. Deve essere oggetto di investimenti professionali, proporzionati ai nuovi termini del problema.

Quando il governo degli Stati Uniti ha deciso di ampliare la base di Vicenza, qualcuno ha sostenuto la necessità di investire, pari risorse, in un Centro Internazionale per il Peace Keeping. Ma, a distanza di anni, l’unico investimento concreto è un parco alberato davanti alla base. E’ troppo poco.

© Quotidiani Gruppo Editoriale L’Espresso (24 Agosto 2021)

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