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05 Ottobre 2018 ~ 0 Comments

L’Italia non è la Grecia (e neanche l’Argentina)

MDA

Quale strategia per invertire i trend negativi della Seconda Repubblica? E se invece della Terza Repubblica italiana, servisse una Seconda Unione Europea (anzi una UE 4.0)?

 

 

Premessa

L’Italia non è la Grecia e neppure l’Argentina. La retorica e l’amor proprio nazionale promuovono una lettura dei fondamentali che non è la stessa degli osservatori internazionali e delle agenzie di rating.

Vero è che l’Italia è la seconda potenza manifatturiera dell’Europa, dopo la Germania, e possiede un patrimonio industriale di tutto rispetto, che Grecia e Argentina non hanno.

Tuttavia è indubbio che stia perdendo posizioni nel ranking globale, che il valore aggiunto pro-capite stia diminuendo, in modo strutturale, rispetto alle altre economie e che, in termini patrimoniali, il paese stia perdendo posizioni (accusando gap crescente e in rapida accelerazione tra contabilità formale e reale).

Come si spiega il progressivo declino dell’Italia e del suo rating?

  1. La produttività cala perché è cambiato il contesto globale. Le piccole imprese manifatturiere che si sono inserite nelle filiere dinamiche globali crescono ancora, ma più lentamente. Quelle legate al mercato interno (drogato dall’edilizia) sono invece in crisi nera, nonostante gli incentivi alla rottamazione e all’efficienza energetica.
  2. Lo Stato nazionale continua a essere inefficiente e le riforme strutturali introdotte dalla Seconda Repubblica (privatizzazioni e mancate liberalizzazioni) sono state poco efficaci.

Cosa hanno fatto i governi di emergenza?

Hanno fatto quello che tutti i consulenti di azienda di solito fanno. Hanno tagliato i costi, bloccato i conti correnti e avviato una politica di austerity che rassicurasse i creditori. Hanno cercato di mantenere buoni rapporti con la UE e il FMI, facendo buon viso a cattivo gioco, continuando a vestirsi bene e ostentare in pubblico un tenore di vita decoroso (noblesse oblige). Hanno “passato la nottata” (grazie a Monti soprattutto) e grazie a una serie di riforme di facciata che hanno dato fiato all’ottimismo, più che all’economia (Renzi). Ma hanno nascosto i problemi.

Il fatto è che il popolo italiano si è opposto con forza a qualsiasi intervento realmente riformatore. Senza ritornare alla retorica della discesa in campo contro le repubbliche plutocratiche e reazionarie d’occidente, è il popolo che ha appoggiato il deficit spending della Prima Repubblica (accogliendo entusiasta le pensioni baby e gli altri diritti acquisiti che prevedevano debito). Ed è sempre il popolo che ha approvato la Seconda Repubblica di Ciampi e dell’accordo di luglio (nel quale la produttività si decideva a Roma). E’ sempre il popolo che ha condizionato la riforma Treu (e soprattutto la riforma Dini!) e il continuo rinvio della resa dei conti previdenziali. E’ sempre il popolo (dei piccoli imprenditori) che ha votato Tremonti e le sue proposte di investimento immobiliare sui capannoni.

Contro il popolo si sono schierati pochi statisti isolati e derisi: La Malfa con la Nota Aggiuntiva del 1962, Andreatta con la separazione tra Tesoro e Banca d’Italia nel 1981, Ciampi con la politica dei redditi, Draghi con la stretta ai cordoni della borsa e poi con la conduzione della Banca d’Italia e della BCE, Monti con la legge Fornero. Ma sono durati poco e non hanno prodotto effetti permanenti.

Sui due fattori strutturali (produttività ed efficienza dello Stato) i governi di emergenza della Seconda Repubblica non hanno fatto nulla. Avrebbero dovuto ridurre il debito pregresso, riorganizzare le funzioni dello Stato (come motore keynesiano dell’economia), portare l’Italia nell’Europa dell’Euro dalla porta principale. Questi obiettivi non sono stati raggiunti e lo stesso governo Renzi, apparentemente impegnato a rottamare vecchie logiche e attuare riforme sostanziali, si è rivelato (ex post) il più populista di tutti (80 Euro), uomo simbolo della Seconda Repubblica, incapace di rovesciare davvero il destino dell’Italia e di mettere in campo un “nuovo modello di sviluppo”.

Anche le riforme “federaliste” avviate da Bassanini e Calderoli, in epoche diverse e con diverse maggioranze, hanno prodotto scarsi risultati. Così come il fiume di denaro (sempre nostro per carità) in arrivo dall’Europa, attraverso i bandi e i fondi strutturali, non ha inciso sullo sviluppo (nel Mezzogiorno in particolare), ed è servito (come ammette lo stesso Viesti) solo a “rallentare” il declino e consentire alle regioni deboli di “traccheggiare” più a lungo del consentito.

Cosa propone il nuovo governo giallo-verde?

Sulla produttività il governo attuale non dice assolutamente nulla. Non ha programmi di investimento sulle competenze e sulle tecnologie innovative (non c’è nulla di comparabile a Industria 2015 e a Industria 4.0).

Sul funzionamento dello Stato, Di Maio dice che i ministeri sono pieni di funzionari fedeli ai partiti delle passate maggioranze e non di onesti burocrati competenti, selezionati in base al merito (la struttura dei 1.500 dipendenti della Presidenza del Consiglio è una emblematica testimonianza della sua tesi). Tuttavia Di Maio non propone una riforma, ma la semplice espulsione dei funzionari attuali (fedeli ai partiti della Prima e Seconda Repubblica) e la loro sostituzione con funzionari fedeli al popolo (alias partiti della cosiddetta Terza Repubblica).

Sulla riforma federalista dello Stato, Salvini ha, da tempo, alzato bandiera bianca. Allo scopo di penetrare elettoralmente anche nel Mezzogiorno (che non è in grado di gestire alcuna autonomia – vedi Sicilia), con la nuova “Lega”, ha rinunciato a qualsiasi programma federale (basato sui costi standard e su una drastica riforma dei rapporti tra Europa/Stato Nazionale e regioni).

Sulla prospettiva di utilizzare lo Stato e la spesa pubblica per investimenti come leva per lo sviluppo, è lecito dubitare che il governo in carica possa fare davvero qualcosa di concreto. Le pastoie nelle quali è impantanato il progetto di nuovo ponte a Genova la dicono lunga sulla effettiva possibilità che il nuovo governo venga rapidamente a capo degli innumerevoli lacci e lacciuoli normativi e procedurali che impediscono la spesa (il progetto “periferie” docet).

Anche il nuovo governo sembra dunque proseguire la deriva della Seconda Repubblica. Anzi, secondo alcuni (Friedman) riporta in vita la Prima (back to the future), senza “cambiare” i fondamentali.

Analisi

L’Italia è un grande paese industriale, ma non è più un modello di economia in crescita strutturale, come negli anni ’80, negli anni dei distretti e dell’uscita dal gruppo dei new comers (nel libro di M.Porter del 1990, Italia e Giappone erano ancora considerati nuovi arrivati tra le potenze economiche mondiali) e non ha una strategia collettiva adeguata ad affrontare le sfide sul tappeto.

La curva di produttività generale dei fattori è il simbolo di questa traiettoria e fa pensare gli osservatori e gli investitori istituzionali che il modello export-led dell’Italia non sia più in grado di affrontare la globalizzazione. Potrebbe esserlo all’interno di un grande progetto europeo, ma al momento prevalgono ipotesi perdenti di svalutazione (Borghi).

Con questo trend di lungo periodo, riusciranno i giovani italiani a mantenere il ranking attuale o sono inesorabilmente condannati a perdere parte del proprio patrimonio, come l’Argentina e la Grecia? Con quale velocità questo potrà accadere?

Se consideriamo la vicenda italiana, da questo punto di vista, non c’è dubbio che il paragone con le altre due economie, in declino strutturale (Grecia e Argentina), abbia purtroppo senso e sia utile per ragionare. Non tanto perché l’Italia rischi un default come quello Greco (il blocco dei conti correnti del 1992) o, ancora peggio, possa davvero uscire dall’Euro e seguire una traiettoria di default analoga a quella dell’Argentina (ritorno al Peso/Lira). Il rischio effettivo è che l’Italia possa entrare in una lunga fase di incertezza, nella quale il costo del debito (spread) continui a crescere, riducendo di molto le possibilità di manovra del governo, influenzando negativamente il flusso di credito alle imprese e impattando sulla congiuntura (recessione) e tenendo il “popolo” sovrano nella morsa di una Seconda Repubblica infinita o addirittura scaraventandolo nell’incubo del ritorno della Prima.

I ragazzi italiani di oggi sono i veri perdenti di questo schema. Non possono ambire a un reddito sufficiente a mantenere un tenore di vita elevato (come hanno fatto “a debito” i loro genitori). Faticheranno molto a pagare le pensioni dei vecchi genitori, calcolate con parametri da anni ’80 (retributivo). Non avranno risorse per investire sulla manutenzione del patrimonio ereditato (case e capannoni in rapido deterioramento). Non riusciranno a sistemare il patrimonio pubblico (investendo in modo serio sulla manutenzione del territorio e delle infrastrutture obsolete) allo scopo di aumentare nettamente la produttività generale dei fattori.

I mercati, le autorità europee, le agenzie di rating non sono, come tende a dire l’aneddotica popolare, poteri forti, ostili ai giovani italiani. E non vanno combattuti (a sputi in faccia), perché politicamente impegnati in una guerra finanziaria contro l’Italia (con il fine neanche tanto nascosto di eliminare un concorrente pericoloso dalla sempre più stretta economia globale).

I mercati sono composti di risparmiatori e pensionati del tutto simili a quelli italiani, alla ricerca di obbligazioni (poco rischiose). Se questi risparmiatori e pensionati temono che i giovani italiani, pur tanto bravi e volenterosi (tolta la tara dei NEET), non siano abbastanza “produttivi” da rispettare i patti a lungo termine, e non abbiano la forza (economica) per restituire i debiti contratti, tenderanno inevitabilmente a investire altrove.

Se questi pensionati sentono i “giovani” leader italiani dichiarare che è meglio tornare alla Lira e che i debiti esteri non si pagano, si spaventano per forza. Quando sentono dire dal presidente dell’INPS che, senza la legge Fornero, i conti di lungo termine non quadrano (ci vorranno due ragazzi da 18 mila euro all’anno per ogni pensionato da 36 mila) cercano di liberarsi dei titoli acquistati. Per questo lo spread vola. Questi investitori si rivolgono ai fondi avvoltoio (vale a dire i fondi internazionali che comprano i titoli a basso prezzo, in attesa di far causa-guerra all’Italia o creando derivati da sbolognare a qualche cinese avido di scommesse e con una corte di risparmiatori incauti da truffare) per ottenere subito un ristoro dei propri investimenti, anche a costo di perderci qualcosa, senza aspettare di perdere tutto (come gli azionisti delle banche italiane).

Come sta cambiano la qualità dei creditori?

Se i rappresentanti dei mercati diventano i fondi avvoltoio, c’è poco da sperare. La crisi di fiducia nell’Italia e nei giovani italiani, diventerà virale e questi faranno di tutto per “spennare” lentamente il pollo (il popolo) italiano di una Terza Repubblica senza prospettive, totalmente prigioniera dei cattivi creditori.

 

Prospettiva

Mettiamoci nei panni dei giovani italiani che hanno ereditato tutto questo. Per un po’ crederanno alle favole del Gatto (Di Maio) e della Volpe (Salvini), ma a un certo punto dovranno per forza cercare una via d’uscita dalla prigione di un inafferrabile Paese dei Balocchi (Prima e Seconda Repubblica inefficienti). Cosa potranno fare?

Dovranno necessariamente provare a ripartire dal patrimonio culturale, dal paesaggio, dal valore immobiliare privato, dal valore azionario delle buone imprese, dagli incubatori di competenze innovative, come le università e le agenzie di formazione post-manifatturiera (makers, nuovi artigiani, fornitori di servizi bleasure e altro di costoso e idiosincratico per l’export).

Su questi fattori i giovani italiani devono puntare, per cercare di invertire la tendenza, per tentare di inventare un nuovo modello di sviluppo. Ma è indispensabile che comincino a discutere seriamente la questione, altrimenti un modello inedito, post Italia delle grandi imprese e post Italia dei distretti, non lo trovano di certo.

Negli anni ’70 e ’80, gli economisti della mia generazione hanno avuto davanti l’esperienza dei paesi più avanzati e hanno provato a portare l’Italia nelle filiere più dinamiche, imitando lo sviluppo manifatturiero degli USA, della Germania e della Gran Bretagna, attraverso un sistema originale (italiano) di organizzazione del lavoro. Hanno trovato il modello dei distretti e ci si sono buttati a pesce.

Quando hanno capito come funziona la società locale, hanno anche immaginato e prodotto storie e infrastrutture a misura di giovane italiano dell’epoca (anni ’80), ex operaio e piccolo imprenditore, e hanno concorso all’ingresso dell’Italia nei G8, alla nascita di Slow Food, del Sistema Moda, della Meccatronica e dell’Autronica, ma anche delle associazioni e delle società di servizio nei distretti.

Oggi è tutto più complesso, perché l’Italia (da sola) non è in grado di entrare nei mercati in maggiore crescita, sui quali servono grandi organizzazioni private ed economie di scala (si veda ad esempio il mercato di Internet, il turismo mondiale, la logistica, la finanza globale). Non ha modelli da inseguire. Ha bisogno di economisti che progettino (assieme ai colleghi europei) un sistema alternativo a quello USA e Cinese. Non può limitarsi a traccheggiare, pensare di uscire dal gioco, tornare a isolarsi, nella prospettiva di un sovranismo alla “si salvi chi può” e alla “viva i furbi della svalutazione competitiva”.

I nuovi economisti dovrebbero agganciarsi al dibattito europeo (tesi di Prodi), pensando a un modello alternativo ad Amazon, Facebook e Alibaba.

Come è possibile limitarsi a pensare che il modello di sviluppo e di crescita dell’Italia del futuro sia quello di un paese turistico e culturale, post manifatturiero? E, anche fosse vero, come si disegna tale paese, allo scopo di attirare capitali, investitori e visitatori “facoltosi” da tutto il mondo?

Attorno a nuovi flussi di visitatori, i giovani italiani possono sviluppare servizi innovativi (che non siano solo il guardia sala dei musei, il cuoco stellato e il cameriere/maggiordomo) e un nuovi sistema di artefatti (industriali/artigianali), di prossimità (idiosincratici), di lusso, che consentano di invertire il trend della produttività e del reddito pro-capite (e addirittura il trend in calo della popolazione residente, compensato da immigrazione di bassa qualità).

Tutto questo, però, si deve vedere! Deve diventare narrazione condivisa! Il governo e i funzionari dello Stato (e delle regioni autonome come il Veneto) non sono in grado di guidare questo processo, di produrre informazioni e anche “illusioni” utili, a mobilitare nuove competenze e iniziative imprenditoriali adeguate alla nuova fase della globalizzazione. Non sono in grado di fare questo neppure i funzionari europei di oggi e la Commissione.

E se la Terza Repubblica fosse inutile o impossibile e uno scenario convincente dovesse dipendere da una “fusione europea” seria (4.0), totalmente diversa dall’andazzo di Maastricht, Schengen e compagnia cantando? Come si devono muovere i giovani italiani/europei?

Ecco, su questo fronte siamo scoperti e il governo giallo-verde non sembra in grado di dare indicazioni, nonostante sia composto di giovani volenterosi e battaglieri. Non danno indicazioni neppure le forze di opposizione (non era D’Alema quello degli Italiani/Europei?).

Come risolvere il problema? Come sostituire una classe dirigente inadeguata all’interno dei partiti della Seconda e della Prima Repubblica “strisciante” (5 Stelle e Lega con Salvini inclusi)? Come coinvolgere le famiglie, le comunità e le istituzioni in un gioco nuovo a somma positiva?

Questo è il problema!

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