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02 Maggio 2018 ~ 0 Comments

Italia-Argentina, un paragone utile

MDA

Il tema

Perché paragonare Italia e Argentina? Quali sono gli elementi comuni a due vicende storiche ed economiche così lontane tra loro? Perché il solo riferimento al declino e al default argentino suscita reazioni tanto polemiche tra gli schieramenti politici?

Una prima risposta è la seguente:

  1. la nostra generazione ha investito in un sogno: far diventare l’Italia un “paese normale”, attraverso una Seconda Repubblica modernizzatrice, progetto di innovazione e riforma verso il modello anglo-sassone e nipponico; abbiamo avuto l’ambizione di portare l’Italia a far parte del gruppo dei paesi “avanzati”, entrando dalla porta principale, confrontandoci con la Germania e gli USA alla pari, dimostrando che l’industria italiana dei distretti e delle medie imprese è in grado di affrontare i mercati internazionali, anche con regimi di cambio sostenuto, grazie all’innovazione e alla qualità dei propri prodotti e servizi che offre; abbiamo usato l’Europa e le sue procedure come “espediente” per costringere il nostro sistema politico e amministrativo, eredità del Fascismo e della Prima Repubblica, a modernizzarsi; abbiamo sperato, in questo modo, di mettere al sicuro i nostri risparmi dalla continua minaccia delle esportazioni di capitali, dell’evasione e dell’inflazione; abbiamo scommesso sulla vitalità sociale e imprenditoriale dei distretti (territori produttivi), nella loro capacità di compendiare sviluppo economico ed eguaglianza sociale, offrendo pari opportunità a tecnici e imprenditori; abbiamo immaginato di vivere in un “modello di sviluppo anomalo”, un capitalismo dal volto umano (Becattini) interessante per altri paesi e per le stesse organizzazioni internazionali (OECD, BID, FMI, ILO);
  2. la nostra generazione si è divisa sul modo in cui realizzare il sogno:
  • Prodi e Ciampi hanno ipotizzato una sorta di ordo-capitalismo italiano, un patto sociale orientato alla produttività secondo il modello tedesco e giapponese (accordo di luglio ’93, svolta di Marentino); hanno creduto nelle virtù del cambio alto; hanno provato a smontare lo Stato paternalista, fascista, attraverso la “concertazione” (con le organizzazioni della società civile, le regioni e i territori); hanno promosso patti territoriali e accordi di programma; hanno inoltre privilegiato le strutture universitarie come riserva di competenze (la scuola di Modena, l’Ufficio Studi della Banca d’Italia, Nomisma), perché hanno creduto nella forza emancipatrice della selezione meritocratica;
  • Berlusconi e Bossi hanno ipotizzato un’altra strada, quella del populismo neo-federalista, orientato al liberismo e al superamento della solidarietà nazionale e dei controlli statali; hanno auspicato la creazione di nuove formule amministrative (governo padano, autonomie regionali, secessione del Nord), diffidando delle élite meritocratiche e puntando invece sulla forza emancipatrice dei piccoli imprenditori indipendenti (quelli fatti da sé e certificati dal successo economico); per questo hanno immaginato un piano di modernizzazione a “geometria variabile”, la rottura dell’unità nazionale e politiche di cambio differenziate (Lira forte del Nord e liretta debole del Sud), come strumenti capaci di stimolare l’auto-sufficienza economica e l’emersione dei popoli e dei territori.

A distanza di trent’anni la nostra generazione deve ammettere di aver mancato il bersaglio, di non aver raggiunto i risultati sperati e di non avere neppure uno straccio di interpretazione dei propri errori.

Sappiamo solo che le nostre ricette di modernizzazione si sono rivelate inattuabili, da una parte e dall’altra dello schieramento. Prodi/Ciampi e i loro sostenitori non sono riusciti a produrre innovazioni radicali nei distretti e nell’economia locale (nel Mezzogiorno, ad esempio, o nelle Aree Interne) attraverso lo strumento della concertazione, della politica industriale (place-based) e dei Prodi-boys e/o Barca-boys, distribuiti nei ministeri e nelle agenzie chiave di sviluppo economico. Berlusconi/Bossi e i loro sostenitori non sono riusciti a produrre istituzioni federaliste, condizioni favorevoli all’impresa, una riduzione del carico fiscale e una classe dirigente autodidatta migliore di quella selezionata dalle università e dai centri studi meritocratici. Anzi si sono resi responsabili di un quasi default nel 2011, oltre che di una serie di comportamenti “incoerenti e illegali” che hanno logorato l’idea stessa della “liberalizzazione” come strumento di innovazione.

Entrambi gli schieramenti sono terrorizzati all’idea di un declino, di un ritorno alla situazione di “esclusione” pre-Unione Europea. Si scambiano accuse di responsabilità, si dividono ancora sul tasso di cambio e sull’Euro (Tremonti insiste sulla tesi della patria tradita), ma non vogliono sentir parlare di ritorno alla Lira, di svalutazioni competitive e di una Serie B, da paesi arretrati, che non è conforme con le loro ambizioni.

Sta di fatto che il debito pubblico è aumentato, nonostante il bonus in conto interessi assicurato dal QE della BCE, nonostante la cura Monti/Prodi (entrambi commissari europei). Sta di fatto che lo Stato non si è modernizzato, nonostante le tante riforme, la produttività dei fattori è diminuita e il paese è inequivocabilmente avviato al declino (con buona pace di coloro che ancora credono in un modello di economia e società utile al mondo).

La nuova generazione, arrivata al potere il 4 marzo 2018, non crede a nulla e non ha alcun obiettivo. Non vuole avere niente a che spartire con Prodi e Berlusconi. Vorrebbe tanto fondare una propria Terza Repubblica senza eredità negative (lasciando alla bad bank della Seconda Repubblica il compito di trovare i finanziatori), ma non sa come liberarsi della nostra generazione. E’ talmente provata dagli anni di crisi e dalla mancanza di futuro, che vede come salutare perfino l’uscita dall’Euro, la ripresa della svalutazione, la ristrutturazione del debito…, purché non si parli più di tasse, sacrifici, conti da pagare, accordi con l’UE e con i mercati finanziari globali.

Non ha memoria dei problemi affrontati dalla nostra generazione per entrare nell’Unione Europea. Vede invece gli effetti sostenibili della Brexit e la crescita del fronte contrario a una UE da primi della classe (una UE a misura tedesca) e spera di rovesciare il sistema. Cerca solo di sopravvivere.

In questo contesto ogni riferimento a paese falliti (come l’Argentina) è politicamente scorretto, per i suoi componenti. La nuova generazione non vuole sentir parlare di esempi negativi, proprio perché è impegnata a immaginare il narrow path che la può condurre fuori dalla morsa attuale, che la nostra generazione ha costruito. Non ha speranze, non ha niente da perdere e cerca di vedere solo il bicchiere mezzo pieno.

Per tutte queste ragioni discutere di Argentina con la nuova generazione è un espediente interessante, perché mette a confronto le ricette e le interpretazioni di due constituency differenti, che hanno visioni e illusioni opposte. E’ utile perché obbliga tutti a ripensare ai modelli economici e alle teorie dello sviluppo, della politica industriale possibile, della politica finanziaria (con gli annessi e connessi citati da Mario Forni: varietà dei capitalismi, vantaggi competitivi, vantaggi comparati, regolazione dei mercati…).

Le domande da cui partire per rendere la discussione feconda potrebbero essere le seguenti:

  1. come è arrivata l’Argentina al default del 2001, dopo quello del 1949 e del 1976, e può arrivare a un altro nel 2018?

Il caso argentino (ancorché unico al mondo) può essere utile come “archivio” di elementi e indizi (comportamenti sociali) propri di una traiettoria/struttura narrativa da default. Quella argentina è una vicenda nella quale, dato il carattere dei protagonisti, il denouement delle loro azioni e attribuzioni, l’unica possibile conclusione/fine di ogni stagione politica è il default – vale a dire l’impossibilità di rimborsare il debito a creditori e una crisi totale di fiducia nelle istituzioni economiche. Può insegnarci qualcosa?

  1. dato che l’Italia fa parte dei paesi avanzati, fondatori dell’Europa ed è entrato nel gruppo dei G8 grazie alla dinamica dei distretti e delle medie imprese manifatturiere, in quale modo può manifestare indizi di una traiettoria evolutiva/involutiva (DIVERSA” da quella argentina) che appartiene tuttavia alla grande famiglia delle storie che finiscono con un default?

Anche il caso italiano (ancorché unico al mondo) può essere utile come “archivio” di elementi e indizi (comportamenti sociali) propri di una traiettoria/struttura narrativa da default. In fondo abbiamo perso una guerra mondiale, arrivando all’8 settembre 1943 convinti di potercela fare (Mussolini e gli 8 milioni di baionette), abbiamo affrontato il collasso del nostro sistema finanziario nel 1992, convinti di essere una potenza emergente (Craxi e il superamento del PIL britannico), siamo arrivati vicini a un altro default nel 2011, convinti di avere un bilancio solido e un governo apprezzato in Europa (Calderoli e il federalismo). Possono questi episodi della storia patria insegnarci qualcosa?

Per rispondere a queste domande, con tutte le cautele e gli adattamenti del caso, un confronto/ paragone tra la “storia” italiana e quella argentina è inevitabile. Perché contiene elementi che, adeguatamente codificati e modificati, possono aiutarci a rileggere lo storyboard di una traiettoria di fallimento e auto-illusione.

Va da sé che un evento eccezionale come il default (ancorché ricorrente nelle discussioni di questi giorni) non può essere inserito volontariamente nello storyboard collettivo (così come la possibilità di perdere la seconda guerra mondiale non era presente nelle storie italiane prima dell’8 settembre 1943 o la possibilità di un attacco a New York non era presente nello storyboard USA prima dell’11 settembre 2001 – nessuna fiction lo aveva preconizzato, o l’idea di una guerra civile non era neppure immaginata in Jugoslavia prima del 1991).

E tuttavia le storie di “catastrofi”[1] politiche ed economiche fanno parte delle esperienze sociali nelle moderne democrazie. Possono essere indagate e codificate.

Come si legge chiaramente in uno dei contributi allegati a queste note, la narrativa del default è esplicitamente presente nello storyboard proposto all’Italia da alcuni esponenti rappresentativi del pensiero sovranista e leghista e spiega l’improvvisa impennata di interesse al tema dell’Argentina. Vale la pena di ricordare che la prospettiva di uscire dallo schema di Maastricht, anche a costo in nuovo default (o di un’uscita ordinata dal regime dell’Euro), è stata avanzata anche da alcuni settori della sinistra italiana, negli anni antecedenti e prossimi alla crisi greca del 2009-2014.

 

[1] Il termine “catastrofe” (accelerazione improvvisa e incontrollabile degli eventi) è stato di attualità nei primi anni ’80. Evocava situazioni che, pur essendo presenti in natura, vengono generalmente trascurare dall’analisi scientifica, che preferisce lavorare sulle situazioni di equilibrio.

 

Elementi e indizi interessanti dello storyboard argentino

L’Argentina è stata per anni, fino al 1990, una delle economie più dinamiche dell’America Latina e ha consentito ai propri cittadini di accumulare un cospicuo patrimonio (di essere tra i più ricchi dell’intero continente americano). Tuttavia, proprio nella fase della seconda globalizzazione (iniziata con il Second Industrial Divide di Piore e Sabel), non è stata più capace di mantenere il tasso di crescita del PIL (pro-capite), attraverso lo sviluppo del manifatturiero, e ha iniziato un percorso di declino e di involuzione verso attività tradizionali del settore primario (estrazione minerali e agricoltura).

L’analisi del carattere dei protagonisti della vicenda argentina e delle sue istituzioni può essere utile per capire l’evoluzione (negativa) di quel sistema, in un arco di tempo relativamente breve (poco più di vent’anni).

Il carattere degli argentini è molto ben determinato (dominato dal desencanto), come quello dei tedeschi subito dopo la prima guerra mondiale: orgoglio nazionalistico mescolato a grande diffidenza nei confronti delle istituzioni militari e soprattutto nei confronti delle istituzioni economiche (passione per le Malvinas e Pesos/Dollari sotto il materasso e non in banca).

Il popolo argentino è abituato/assuefatto al default perché lo porta nel cuore, dal primo default “populista” generato dalla fine del regime (populista) di Peron e dalla nascita del Club di Parigi, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, alla crisi del 2001.

La cultura argentina è pervasa dell’idea nazionalista di opposizione alle plutocrazie occidentali e l’azione dei policy maker argentini ha avuto un ruolo fondamentale nell’attivare questo circolo vizioso della fiducia. Negli anni ’80 la dittatura ha distorto il funzionamento dell’economia e incrinato il rapporto tra cittadini e stato. La maggior parte degli imprenditori, già alla fine degli anni ’80 teneva il proprio patrimonio nelle banche americane, denominato in dollari. La politica di sostituzione delle importazioni non ha mai funzionato.

Con la dollarizzazione dell’economia (negli anni ’90) Menem e Cavallo hanno tentato di imporre uno schema populista innovativo (moderno), di amore/odio nei confronti degli USA, ma hanno ottenuto un risultato contraddittorio: sono riusciti ad allargare la fiducia nella politica nazionale (neo-giustizialista), ma non hanno restaurato la fiducia nel modello industriale autoctono (la moneta forte ha distrutto capacità produttiva) e in un sistema finanziario nazionale, gestito “politicamente”.

Negli anni successivi al default (2001) la sfiducia e il desencanto sono diventati endemici e il sistema industriale non è più riuscito a recuperare competitività, nonostante le svalutazioni, e non ha ricostituito una base sufficiente a riprendere un percorso di crescita, imponendo al paese il ritorno all’esportazione di materie prime e prodotti agricoli poco qualificati (commodities), sottoposti a regimi di prezzo determinati dalla globalizzazione.

Elementi essenziali, indizi precoci di questo inesorabile storyboard sono presenti nella letteratura argentina, nell’analisi economica (ricordo i commenti di Marcello De Cecco su Repubblica-Affari e Finanza) e nelle informazioni disponibili agli osservatori, sin dall’inizio degli anni ‘80. Quanto agli effetti concreti del collasso economico e finanziario del 2001 esistono montagne di documenti, che rafforzano il “terrore” di un nuovo default.

Ne cito un paio a titolo di esempio, tratti dalla mia osservazione diretta, personale, degli eventi argentini.

Nel 1997 il governo ha privatizzato alcune infrastrutture, arrivando a cedere ai privati tratti di strade provinciali. Nell’impossibilità di procedere alla manutenzione ordinaria il governo ha consentito ai privati di installare caselli, su quei tratti di strada, per raccogliere i fondi necessari a riempire le buche.

I miei ospiti argentini commentavano il provvedimento con ironia, facendo appello al loro caratteristico desencanto: “Pensa te, dobbiamo oggi pagare un’altra volta la strada che abbiamo finanziato con le nostre tasse, sotto casa!”.

Ricordo bene che la notizia mi è apparsa subito un indizio allarmante, di una situazione fuori controllo. Non l’ho però collegata a una narrativa di default, perché io stesso non ero in grado di riconoscerla.

Nel 2001 (ottobre) una camera d’albergo costava 100 dollari, con carta di credito. La stessa camera, dopo il default (febbraio 2002), mi è stata offerta a 14 dollari, in contanti.

Non mi pare di aver visto riprendere gli effetti del default argentino dai media italiani e neppure dalla letteratura specializzata, allo scopo di consentire anche ai cittadini italiani (sottoscrittori di Tango Bond) di intuire, pur non avendola vissuta direttamente, cosa possa significare l’esperienza di un default (de un fracaso total).

Pochi sanno, in Italia e in Europa, che nel 2001, prima del default, il potere di acquisto di una pensione media era di 800 dollari, mentre nel 2002, dopo il default, il potere di acquisto della stessa pensione si era ridotto a 80 dollari.

Molti ricordano le code degli argentini davanti alle saracinesche chiuse delle banche, ma pochi conoscono la paralisi monetaria e la confusione successiva al default, quando letteralmente non si sapeva (a parte il Dollaro) in quale valuta concludere i contratti e le transazioni anche più semplici.

Molta enfasi si è data al caserolazo (a sinistra) e all’economia del baratto organizzata nei quartieri di Buenos Aires (da esponenti della classe media e non soltanto dai disperati delle villas miserias), ma pochi hanno approfondito gli elementi istituzionali collegati alla gestione di un default, non solo nei giorni e nei mesi immediatamente successivi al collasso, ma anche negli anni a seguire.

Si tenga presente che a quasi vent’anni dalla crisi argentina, ancora la scena è dominata dagli avvocati, dai contenziosi, dai fondi buitre (avvoltoi) che rivendicano la restituzione del debito argentino, acquisito a prezzi stracciati dagli investitori internazionali in fuga.

Tutte esperienze neanche lontanamente paragonabili alla perdita in conto capitale subita dagli azionisti delle banche venete (visto che la totalità dei depositi è stata comunque garantita), ai problemi dei correntisti greci durante la crisi del 2014 o alla pressione patrimoniale esercitata dai provvedimenti di Monti (e dall’Europa della zona Euro).

Uno come me, che ha visto con i propri occhi, questo tipo di effetti e l’impatto che essi hanno esercitato sulle storie in circolazione non solo in Argentina o in America Latina, ma anche da noi (suocera di Diamanti), non può non notare la superficialità e la leggerezza con la quale gli esperti della Lega e i teorici dell’uscita dell’Italia dalla zona Euro trattano una materia incandescente.

L’ipotesi di un default italiano avrebbe proporzioni inimmaginabili oggi e conseguenze imprevedibili, assai lontane da quelle argentine.

L’Italia (too big to fail) ha soltanto piccole esperienze di quasi default, controllati bilateralmente con la Germania e con le autorità europee (mi riferisco alla crisi del 1992 e a quella del 2011). Situazione difficili si sono registrate alla fine degli anni ’70, quando il FMI intervenne pesantemente sulla politica economica e finanziaria del nostro paese, ma in nessun caso abbiamo sperimentato gli effetti di un vero e proprio default (fallimento/fracaso total). Neanche dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale o nel passaggio da Lira a Euro, con drastica svalutazione del valore nominale del reddito e del patrimonio.

Per questa ragione gli stessi economisti del nuovo governo giallo-verde sono ottimisti di fronte alla possibilità di avviare una fase di “uscita ordinata” dall’area Euro (suggerimento di Sergio Lugaresi), nella quale un negoziato con la UE potrebbe assomigliare a quello con la Gran Bretagna piuttosto che con la Grecia.

Ma c’è sempre una prima volta. L’Italia ha una lunga assuefazione a debito pubblico, prestiti forzosi e altre misure drastiche nella gestione delle crisi bancarie. Tuttavia, nessuno sa quale china si aprirà nel momento in cui, date le condizioni del paese reale, soprattutto nel Mezzogiorno, si dovesse avviare una NEP (Nuova Economia Populista) con provvedimenti che aumentino di molto il deficit e il debito pubblico, come l’eliminazione della Legge Fornero, il salvataggio dell’Alitalia e l’avvio di sperimentazioni ardite sul fronte fiscale.

 

La complessità dei meccanismi di aggiustamento in Italia e la narrativa prevalente

Gli economisti della Lega non cercano neppure di spiegare come una dinamica di “tipo argentino” sia impossibile nel nostro paese. E ciò nonostante evocano temi e percorsi che richiamano quell’esperienza.

Oggi l’Argentina è un paese agricolo condizionato dai prezzi internazionali delle materie prime e dei prodotti agricoli, mentre l’Italia è una potenza industriale, manifatturiera, turistica, di classe globale e non possono essere trattati allo stesso modo.

Questo affermano i teorici della Lega. Ma non spiegano cosa ne è stato delle politiche di “sostituzione delle importazioni” e di “incoraggiamento dei settori industriali” messe in atto in diverse epoche e con strumenti diversi o quali siano stati i benefici effettivi delle diverse ondate di svalutazione.

Per tornare a essere un paese agricolo, esportatore di commodities del settore primario e di quello estrattivo, dopo essere stato un paese esportatore di macchine agricole e industriali, componenti per l’automotive, tessile e pelletteria, l’Argentina ha subito gli effetti indesiderati di una politica economica e industriale che cercava di raggiungere obiettivi opposti alla “primarizzazione/marginalizzazione” dell’economia.

Quello che può essere interessante per noi (che cerchiamo di capire l’evoluzione, il denouement, della politica economica e industriale argentina), è verificare le cause dell’insuccesso negli aggiustamenti proposti. Altrimenti il “paragone” non serve veramente a nulla.

Un «attacco speculativo» che ci costringesse a svalutare renderebbe i nostri prodotti e il nostro turismo ancora più convenienti per l’estero, aumentando il nostro surplus commerciale, cioè la nostra disponibilità di valuta pregiata, senza bisogno di alcun rialzo dei tassi.”

Questo affermano gli economisti della Lega (rifiutando il paragone con l’Argentina e accreditando invece il confronto con l’Ungheria), da sempre favorevoli alle politiche di svalutazione (ricordate l’idea di introdurre due regimi monetari in Italia – Lira del Nord e Lira del Sud), ritenendo le condizioni strutturali del nostro paese o adatte a sfruttare l’elasticità della domanda al prezzo (dei nostri prodotti), attraverso la leva delle esportazioni. Si veda la nota di Borghi Aquilini e Bagnai qui in allegato.

In questa specifica narrativa, che valorizza anche episodi propri della nostra esperienza nazionale (modellizzata), si ritrovano tre assiomi:

  • i prodotti manifatturieri italiani sono di buona qualità (anche se non “fanno i prezzi” internazionali come quelli tedeschi) e vengono avvantaggiati (soprattutto macchinari e impianti) da eventuali cali di prezzo, in termini relativi, rispetto ai prodotti dei concorrenti leader di mercato; i prodotti manifatturieri si collocano in posizione intermedia, dal punto di vista della qualità, rispetto a quelli dei paesi avanzati e dei paesi new-comers; i servizi turistici e il Made in Italy godono invece di un vantaggio “idiosincratico”;
  • la bilancia commerciale italiana è in grado di compensare eventuali fughe di capitali e riduzioni della domanda interna (dovute al calo di potere d’acquisto delle famiglie a reddito fisso determinato dalla svalutazione e dalla crescita di costo dell’energia e di altri prodotti importati), tanto da aumentare le riserve nazionali di valuta pregiata, senza ricorrere a tassi di interesse elevati o acquisti della BCE;
  • la bilancia dei pagamenti si aggiusta perché i mercati di sbocco dei prodotti italiani sono denominati in valute forti (Euro o Marco), mentre le materie prime sono denominate in valute deboli (Dollaro) e si presume che la forbice di prezzo sia sempre favorevole al nostro sistema produttivo (anche questo pezzo della storia narrata dagli economisti della Lega è tratto dall’esperienza degli anni ’70 e ’80).

Questa ricostruzione risulta credibile, poiché fa riferimento a esperienze e storie che sono molto popolari nella nostra cultura nazionale (alimentata da episodi topici, come il presunto superamento della Gran Bretagna ai tempi dell’ultimo Craxi, già citato in precedenza).

Tuttavia si tratta di una ricostruzione che non tiene conto di altri fattori, che sempre hanno accompagnato il modello delle svalutazioni competitive e della Lira debole:

  • la perdita secca patrimoniale determinata dalla svalutazione; una perdita compensata dalla riduzione del valore nominale dei mutui (che ha reso tanto semplice il riscatto delle case popolari negli anni ’70 e che ancora oggi alimenta l’idea di un periodo felice, nel quale le famiglie italiane potevano permettersi obiettivi oggi non raggiungibili);
  • l’inflazione che distrugge potere di acquisto (soprattutto delle famiglie a reddito fisso), alimentando una spirale prezzi-salari che allarga le disuguaglianze sociali;
  • il carico di incertezze e costi finanziari (in conto interessi) che grava sul bilancio dello stato, anche dopo il default;
  • l’incertezza nel valore delle merci, che costringe gli operatori a speculazioni sui cambi, assicurazioni sui crediti e mille altre precauzioni, inutili in regime di cambi fissi, bassa inflazione e stabilità dei flussi;
  • le raccomandazioni delle istituzioni internazionali (come quelle del FMI negli anni ’70) che hanno un impatto diretto sui flussi di capitali e sui tassi di interesse.

Questi elementi, che sono stati i principali protagonisti della vicenda italiana negli anni ’70 e ‘80, così come di quella argentina, sono ampiamente sottovalutati o “espunti” dalla narrativa leghista. Prevale un’interpretazione scolastica e modellistica, solo delle variabili economiche positive (standard) che non rende conto di contraddizioni e degli effetti indesiderati che le variabili positive portano con sé (come conseguenza delle politiche di svalutazione).

Certo, la storia non si ripete e le variabili economiche seguono andamenti diversi in diversi contesti. I modelli devono essere adattati.

Un esempio?

La svalutazione post default del 1992 non ha portato inflazione (come ci si sarebbe dovuto aspettare) per la depressione dei prezzi delle materie prime e la riduzione generale delle attività economiche che ha frenato l’innesco di una spirale inflazionistica. In quel momento i governi italiani (Prodi, ma anche Berlusconi) hanno posto in atto un pesante ridimensionamento del debito pubblico, attraverso processi di privatizzazione e liberalizzazione di alcuni mercati, conseguentemente agli accordi di Maastricht e alle convenzioni siglate con la Germania, subito dopo il default (forse i più giovani non si ricordano il blocco dei conti correnti varato dal governo Amato in una notte, dopo un precipitoso viaggio in Germania.

Ma fiammate inflazionistiche sono state tipiche della congiuntura italiana in altre epoche quando il nostro sistema si collocava in posizioni più prossime a quella argentina.

Mutatis mutandis è ben possibile che una scelta di svalutazione, nel contesto di un’uscita (più o meno ordinata) dall’Euro e con una diversa collocazione internazionale dell’Italia, non produca esattamente gli stessi effetti (positivi) che si sono registrati negli anni ’90 e provvedimenti analoghi a quelli argentini potrebbero produrre in Italia reazioni molto diverse (negative), da quelle verificate in Italia nella fase pre-integrazione europea.

Anche la semplice elencazione di queste contraddizioni, sarebbe utile ad attivare un confronto più critico verso le incognite del futuro.

Le giovani generazioni, cresciute in un ambiente di cambi fissi, assenza di barrire doganali, uniformità delle regole di mercato, assenza di confini, ecc… dovrebbero essere informate di tali possibili contraddizioni e andrebbero educate a un approccio più complesso e meno propenso a considerare solo gli aspetti positivi di modelli teorici non verificati.

Gli esperti leghisti dovrebbero dimostrare in che modo, nelle condizioni da loro proposte, molti dei problemi e delle controindicazioni qui citate non si dovrebbero verificare.

Altrimenti i vantaggi della politica di svalutazione e uscita dall’area Euro, da loro proposta, apparirebbero molto più incerti e meno credibili.

La complessità dell’analisi economica e degli elementi che si devono considerare per una politica di controllo del sistema economico italiano o per escludere effetti negativi di una possibile “uscita ordinata” dall’area Euro (come suggerisce Brazzale nell’articolo qui in allegato) è assai più elevata di quanto i leghisti pensino e diano a credere.

 

 

ALLEGATI  –  Articoli apparsi sulla stampa italiana

 

Italia-Argentina, il paragone impossibile. E non grazie all’euro

Claudio Borghi Aquilini e Alberto Bagnai

 

Caro direttore,

abbiamo letto con una qualche sorpresa sul suo giornale l’opinione di Federico Fubini in merito alla (ennesima) crisi argentina, che potremmo sintetizzare così: «L’Argentina è in difficoltà, meno male che noi siamo nell’euro altrimenti lo saremmo anche noi». Ricordiamo al dottor Fubini e ai vostri lettori quattro concetti banali:

1) Argentina e Italia sono Paesi profondamente diversi. In Argentina il settore agricolo pesa il quadruplo rispetto all’Italia (rispettivamente, 8% e 2% del Pil), e questo incide sulla composizione dell’export, che in Italia è composto per l’84% da prodotti manifatturieri, mentre in Argentina solo per il 31%.

2) Quando un Paese si basa sulle materie prime o su prodotti agricoli grezzi, la sua prosperità dipende dai prezzi di questi ultimi sui mercati internazionali. Una caduta dei prezzi lo metterà in difficoltà qualsiasi moneta esso adotti o per quanta moneta esso stampi. Ciò vale per esempio per il Venezuela se il prezzo del petrolio dimezza e vale anche per l’Argentina: se il prezzo della soia crolla del 30%, come è successo nell’ultimo quinquennio: gli argentini devono tirare la cinghia e non c’entra se la moneta è il peso, l’euro o il dollaro.

3) Questo anche perché le materie prime hanno domanda rigida: se la soia dimezza non ingozziamo i nostri vitelli. Anche a causa di ciò dal 2010 l’Argentina è in deficit estero, cosa che ora la costringe ad alzare i tassi per farsi prestare i soldi che non guadagna più esportando. La politica monetaria degli Stati Uniti, evocata da Fubini, c’entra, ma solo perché si innesta su questa fragilità strutturale. La situazione dei Paesi manifatturieri è ben diversa, perché la domanda dei loro prodotti è elastica al prezzo, e a questo punto quale valuta si adotti e come la si gestisca diventa rilevante. Un «attacco speculativo» che ci costringesse a svalutare renderebbe i nostri prodotti e il nostro turismo ancora più convenienti per l’estero, aumentando il nostro surplus commerciale, cioè la nostra disponibilità di valuta pregiata, senza bisogno di alcun rialzo dei tassi. Se non credete a noi, fidatevi di un commentatore bene informato: «Euro più debole? Per noi sono più i vantaggi che gli svantaggi» (Fubini, 11 marzo 2015).

4) Quanto precede spiega perché l’argentino Macrì, nonostante sia tutto «buon senso, riforme e prudenza» (a detta di Fubini), da quando ha preso il potere ha visto la sua valuta indebolirsi del 45% sul dollaro, senza riuscire a riequilibrare i conti con l’estero. Viceversa, un altro presidente, l’ungherese Orbán, nonostante sia tanto cattivo e non faccia le riforme, ma anzi cacci il Fmi fuori dal Paese con la ramazza, pur non avendo l’euro, bensì il fiorinetto, va avanti tranquillissimo, grazie al suo surplus commerciale, e viene costantemente rieletto dai suoi concittadini. L’export ungherese è per l’83% composto da prodotti manifatturieri e per questo l’Ungheria ha beneficiato della flessibilità del fiorino. Lasciamo valutare al lettore a quale Paese l’Italia somigli di più.

Speriamo di aver chiarito una volta per tutte che citare l’Argentina per sostenere che «l’Italia non è in crisi grazie all’euro» è un non sequitur, a meno che non si vogliano mandare messaggi politici (cose tipo: se passerà il referendum sulla Brexit la Gran Bretagna sparirà nell’oceano) ma in questo caso andrebbero connotati come tali.

 

Dipartimento di economia della Lega

(Il Corriere della Sera – domenica 5 maggio 2018)

 

 

 

Draghi come Zonin: una mega “baciata” per puntellare l’euro

Attraverso il Quantitative Easing della Bce, i titoli di Stato italiani gonfiati come le azioni BpVi. Più si ritarda l’inevitabile, peggio sarà per tutti

Roberto Brazzale

 

Le recenti fluttuazioni della valuta argentina, innescate da un rafforzamento del dollaro americano, hanno subito fatto starnazzare i difensori della moneta unica europea: «ecco quello che accadrebbe anche a noi se non fossimo nell’euro!». Il fatto dovrebbe smuovere le sinapsi dei veneti e in particolare dei vicentini perché ricorda le assemblee di inizio anni dieci in Fiera a Vicenza, quando il presidente della BpVi, Gianni Zonin, si compiaceva di riuscire a difendere il valore delle azioni della popolare berica, in quanto non quotata. A quell’epoca, le cugine quotate vivevano momenti drammatici con svalutazioni che raggiungevano il 90%. A quelle batoste di mercato quelle banche dovettero reagire rimboccandosi le maniche ed i loro soci furono subito messi sul chi vive in ordine a nuove sottoscrizioni. Zonin e la sua cricca, al contrario, sopravvalutando il prezzo di emissione del titolo, rinviarono di molti anni, aggravandolo pesantemente, il momento della resa dei conti.

L’analogia tra Zonin e Draghi è molto meno azzardata di quanto si possa pensare. L’azione di entrambi, infatti, è stata ed è finalizzata ad alterare la percezione del reale rischio rappresentato dal titolo sulla cui stabilità hanno riposto tutte le loro personali fortune: le azioni della BpVi per Zonin, i BTP italiani per Draghi. Mentre la valuta argentina è oggi esposta ai marosi della realtà, dura ma terapeutica, i titoli di stato italiani oggi vengono quotati a prezzi insensati, sostanzialmente alla pari con i titoli tedeschi nonostante l’abissale differenza di rischiosità, per il solo motivo che a tali prezzi la BCE li acquista o fa acquistare sul mercato, senza limiti, i con denari di tutti creati dal nulla, attuando il famigerato QE (Quantitative Easing, ndr). Questo strumento, nato per operare riduzione di tassi, nella prassi corrente della BCE è finalizzato a mascherare la debolezza dei titoli italiani, a garantire il loro prezzo e liquidità, allo scopo di puntellare la costruzione di quella moneta unica i cui sinistri scricchiolii non sentono soltanto coloro che non li vogliono sentire.

Il QE di Draghi non è, ne’ più ne’ meno, che una gigantesca “baciata” di Zonin. Quello emetteva azioni a prezzi gonfiati rispetto al reale valore, finanziando i sottoscrittori, ingenui, ingannati o costretti; il banchiere di Francoforte, in modo analogo, crea denaro dal nulla, germanico, di ottima lega, almeno finora, con il quale compra sul mercato a valore pieno titoli di stato della Repubblica Italiana che, così, può permettersi di emetterne all’infinito; l’effetto collaterale, sempre che non sia quello voluto, è che in questo modo permette la sopravvivenza del sistema politico istituzionale fallimentare della penisola, che può permettersi di indebitarsi all’infinito.

Il sistema italico, refrattario a qualsiasi vera riforma, ringrazia e balla sul Titanic, col biglietto pagato da Berlino. Come Zonin gabbava i sottoscrittori i quali, con le baciate, impegnavano il proprio merito di credito personale, così Draghi gabba i tedeschi, i quali devono accettare che la BCE compri carta mediocre per buona usando il loro merito di credito, che è grande ma non infinito. L’euro, in questo modo, assomiglia molto più alla liretta che al marco. I crediti della loro banca centrale presso la BCE, infatti, corrispondenti alle antiche riserve valutarie, varranno al momento dell’incasso, cioè dell’inevitabile, futura, dissoluzione dell’euro, tanto quanto valgono oggi le azioni della Popolare di Vicenza.

Rimediare a questa deriva sembra molto difficile. Così, infatti, come le banche si erano fatte una faccenda troppo seria per i vicentini contemporanei, i quali  prima hanno lasciato bruciare il valore della loro banca dall’euro-deflazione e dalla gestione Zonin e poi se ne sono fatti soffiare la parte sana ai milanesi, così i cittadini europei sono stati cacciati in un guaio molto più grande di quanto siano in grado di gestire  attraverso processi volontari e negoziati.

Ormai gli osservatori più attenti sembrano convenire sul fatto che l’uscita dall’euro e dalle “baciate” di Draghi sia troppo costosa in termini di consenso per essere gestita dalla politica, perfino dalla Germania, e richiederà uno shock esterno. In altri termini, sarà la verità scabra, salvifica dei mercati a guidare le danze nel momento in cui la quiete artificiale in cui ci troviamo non sarà più sostenibile, come non lo fu la liquidabilità a 62,50 euro delle azioni della BpVi.

Ecco perché, paradossalmente, rischiano di stare “meglio” gli argentini, cui la brutale realtà viene sbattuta loro in faccia anziché anestetizzata da moderni mesmerizzatori. I problemi, da che mondo è mondo, vanno affrontati. Lo fanno i singoli, le famiglie, le imprese. Non si capisce perché non lo debba fare uno stato, specialmente se la sua bancarotta è manifesta, o una comunità di stati irresponsabili nel momento in cui i loro incoscienti progetti falliscono. Le drammatiche, dolorosissime conseguenze delle malìe zoniniane, che tante sofferenze hanno provocato, sono destinate a rivivere su scala più ampia e, probabilmente, a scatenare tensioni e conflitti tra popoli, (la Grecia potrebbe essere stato un minimo anticipo) di cui oggi non si vuole riconoscere la possibile gravità e dimensione.

Rimedi? Il solito. Lasciar fare alla natura. Chi si è messo incoscientemente contro le leggi eterne ed invincibili dell’economia, sia esposto agli effetti della verità. Fuor di metafora, si tolga prima possibile il timone a Draghi, come lo si doveva a tempo debito togliere alla cricca di Zonin, e si affronti con coraggio la verità. Se si eccettuano Salvini e Zaia che dimostrano idee chiare imbarcando Bagnai e Borghi, se non altro sulla fase “destruens” del problema, gli altri politici italiani rivelano un disarmante analfabetismo sul tema decisivo e tragico della politica odierna.

La sparata di Grillo riguardo un referendum in materia di euro sembra più uno scomposto e maldestro tentativo di ovviare al calo di immagine e consensi conseguenti alla messa alla prova di Di Maio. Il cabarettista genovese dovrebbe, infatti, essere cosciente della presumibile obiezione di incostituzionalità a tale richiesta e, soprattutto, alla altissima probabilità di perdere nel caso in cui il popolo fosse chiamato a pronunciarsi. Chi dovrebbe infatti convincere milioni di italiani ad affrontare la drammatica fine del progetto di moneta unica? Quali argomenti, quali uomini verrebbero messi in campo per convincere gli elettori a scegliere la strada impervia ma salvifica, rispetto ad una comoda anche se venefica permanenza all’ombra della BCE? Nel panorama attuale non sembrano esserci “opinion makers” sufficienti per l’impresa. I più nemmeno ci arrivano. Qualcuno, forse, ci arriva ma calcola. Il mondo della sinistra, a dispetto della terribile penalizzazione che l’euro infligge ai lavoratori ed alle categorie più deboli, sembra incapace di una pur minima analisi, ed i suoi leaders, Renzi fra tutti, non riescono a pronunciare una sola frase sensata in materia economica dopo anni vita pubblica ed interviste, basti pensare che credono ancora nella bontà degli 80 euro in busta paga.

Draghi, come Zonin, sta realizzando delle “baciate” con il suo QE. Deve essere la Germania a decidere. Ormai il blocco Merkel sta per perdere la maggioranza. La Germania deve decidere se rendere irreversibile il sistema dei trasferimenti all’Italia oppure affrontare la tragica realtà di una rivalutazione del suo cambio per liberarsi dal destino. Draghi sta tamponando ma c’è un piccolo inconveniente: sta alimentando tutti in proporzione, anche coloro che non ne hanno necessità. Tant’è che la Germania risparmia sugli interessi aumenta ancor di più il saldo commerciale e gli squilibri crescono.

Situazione insostenibile. Si rimuova il grande aggiotaggio e si dia voce alla verità delle leggi di natura, contro le quali gli europei sembrano la razza umana più incline a lanciarsi. Finalmente i problemi dovranno essere affrontati, gli squilibri si aggiusteranno con l’aggiustamento dei cambi, i popoli torneranno ad essere pieni padroni del loro destino, qualunque essi si meritino. Trascinare il “Grande Aggiotaggio” non farà che rendere più doloroso lo scoppio della bolla.

 

Vvox (quotidiano on-line) (mercoledì 8 maggio 2018)

 

 

LA STORIA, IL FUTURO. UN PAESE CHE VA RIFONDATO

Ernesto Galli della Loggia

 

Ha ragione Giuliano Ferrara — restituitosi finalmente alla sua intelligenza dopo il fatuo ottimismo che ostentava nella stagione che si chiude — quando ha scritto che «c’è qualcosa di misterioso e di tremendo nell’affondamento della Repubblica», nella Repubblica «virtualmente a pezzi» che abbiamo da tempo sotto gli occhi ( Il Foglio, 10 maggio). Ma il punto di partenza di questo naufragio non è come egli pensa, e come in vario modo molti altri pensano con lui, l’uccisione di Aldo Moro. La «corrosione dello Stato», «la prigionia della cultura e della politica» non nascono dal quel delitto.

L a democrazia italiana non è stata messa in ginocchio dalle Brigate Rosse. È stata consumata da un’entità ben più forte e indomabile: dalla sua stessa storia, non riconosciuta e ancor meno compresa ma invece mistificata ed edulcorata quanto possibile. A suo modo «misteriosa e tremenda» è per l’appunto questa resistenza della storia all’oblio, il fatto che essa non dimentica nulla e di tutto prima o poi presenta il conto agli immemori. E cioè a noi che abbiamo dimenticato la nascita infelice della nostra democrazia da una guerra rovinosamente perduta accompagnata da una guerra civile. Una guerra civile che se ha pur momentaneamente unito alcuni pezzi del Paese (quelli della sua futura ufficialità politica), molti di più ne ha diviso tenacemente nell’anima e per molto più tempo.

Egualmente abbiamo rimosso il fatto che la sconfitta ha annichilito il nostro rango internazionale, ha cancellato per mille aspetti la nostra stessa sovranità lasciandoci organicamente subalterni a poteri stranieri. Sia pure a dispetto della buona volontà di molti è accaduto così che dopo il ‘45 la dimensione della nazione si sia rapidamente eclissata. E in assenza della nazione per forza di cose non ha potuto neppure esistere l’idea dell’autonomia e del valore superiore dei suoi interessi generali. Cioè degli unici fattori che rendono possibile l’esistenza di una vera classe dirigente. Sicché abbiamo dovuto contare solo sulla politica: ma una politica poggiante in certo senso sul vuoto, dal momento, tra l’altro, che le modalità della sconfitta — l’8 settembre — sono valse a dare un colpo durissimo all’immagine già non molto solida dello Stato, della sua autorità e del suo comando. Ha compiuto l’opera un gigantesco fenomeno di camaleontismo di massa dall’antico al nuovo regime. La Resistenza infine — benché certamente assai utile come giustificazione ideologica ufficiale del nuovo regime democratico — ha pure significato tuttavia (complice la successiva «guerra fredda») radicare nel Dna della Repubblica non solo il fascino della fazione e dello scontro e la facilità del ricorso alla delegittimazione e all’inimicizia assolute in nome dell’antifascismo, ma anche la perdurante suggestione dell’ «organizzazione» e delle «reti» più o meno occulte, oltre la strisciante tentazione per le forme più varie di «complotto» insieme al continuo allarme circa la loro esistenza.

La vita della democrazia italiana, priva dell’ancoraggio in istituzioni forti e in una vera classe dirigente, è stata progressivamente corrosa dalla corrente sotterranea dei grigi lasciti della sua origine, destinati ad affiorare di continuo e drammaticamente. Basta ripercorrere una cronaca arcinota. Eccola sia pure sommaria: la semirivolta a macchia d’olio del luglio ’60; l’uso improprio dei Carabinieri accarezzato da un presidente della Repubblica, Segni, poi colto da un infarto in circostanze poco chiare e «dimessosi» in circostanze ancora meno chiare; una città capoluogo di regione, Reggio Calabria, messa a ferro e a fuoco e presa in ostaggio per settimane e settimane da bande di rivoltosi fascisti; un altro presidente della Repubblica, Leone, costretto inopinatamente a dimettersi contro la sua volontà; la diffusione a del terrorismo come in nessun altro Paese europeo; un’organizzazione segreta, la P2, infiltratasi massicciamente ai massimi livelli dello Stato e della società; attentati dinamitardi a ripetizione per anni di origine sostanzialmente sconosciuta, con decine e decine di vittime; un uomo politico chiave, Moro, assassinato; un altro, Andreotti, innumerevoli volte ministro e capo del governo, incriminato come colluso con i vertici della mafia, processato e solo semi assolto; ancora un terzo, Craxi, inseguito da mandati di cattura e costretto all’esilio; un altro presidente della Repubblica, Cossiga, dimessosi prima di esser messo sotto accusa dal principale partito d’opposizione per tradimento della Costituzione; di nuovo un altro presidente della Repubblica, Scalfaro, oggetto di illazioni pesantissime e costretto a difendersi in modo improprio; quattro partiti che per un quarantennio erano stati il cuore del governo del Paese cancellati nel giro di diciotto mesi per una serie di inchieste giudiziarie; infine una serie di uomini chiave dell’economia — Mattei, Calvi, Gardini, Cagliari — morti tutti in modo violento e in circostanze oscure o comunque drammatiche. Esiste un’altra democrazia in Europa, mi chiedo, che possa vantare una simile sfilza di fatti inquietanti (che non sono semplici fatti isolati: costituiscono un contesto)? E come non pensare proprio per tale contesto ad un’origine lontana e rimossa? L’articolo famoso con cui Pier Paolo Pasolini intendeva smascherare i «misteri d’Italia» non doveva intitolarsi «Io so»: avrebbe dovuto intitolarsi «Io ricordo».

Mille segni di crisi — tra cui ultimo di queste ore la clamorosa confisca/cancellazione di fatto, ad opera della nuova partitocrazia, della carica di presidente del Consiglio — indicano che ormai all’ordine del giorno va messa la rifondazione della Repubblica. Né più né meno. Ripensare senza inganni compiacenti la sua origine storica, costruire una sua nuova memoria rispondente alla verità: ecco il primo compito di questa rifondazione. Senza di che continuerà ad essere impossibile restaurare la dimensione della nazione: cioè la consapevolezza di far parte di una comunità con una storia, una cultura e un destino che riguardano tutti senza che naturalmente ciò cancelli le tante e necessarie diversità; la consapevolezza che siamo solidalmente legati da bisogni e interessi generali; e che tutto ciò si accompagna sì a molti diritti ma anche ad altrettanti doveri. Ci servono nuove culture politiche, nuovi partiti, capaci innanzi tutto di muoversi in una simile direzione. La democrazia italiana ha bisogno di un forte richiamo a un impegno nazionale comune perché è stata proprio la latitanza di esso che nell’ultimo cinquantennio ha prodotto, dopo i primi anni del dopoguerra in cui era ancora operante l’eredità del secolo precedente, lo sgretolamento di quei tre pilastri — una classe dirigente, un sistema d’istruzione, una cultura dello Stato e dell’Amministrazione — necessari a impedire che alla fine, com’è invece avvenuto, prendesse il sopravvento su tutto la più misera e vuota politica di partito. La quale, unica attrice sulla scena, è stata così destinata fatalmente a ritrovarsi alla mercé del dilettantismo dei parvenus e dell’arroganza delle oligarchie. Con il risultato dell’Italia di oggi: un Paese che sembra non sapere più che cosa è né cosa vuole essere; senza idee, senza strategie, senz’anima, sempre più terra di diseguaglianze e di povertà.

Un Paese senza Stato, perlopiù sporco e malandato, spesso invivibile, incustodito e inerme di fronte a chiunque voglia prenderselo. E perciò tentato per disperazione dalle sirene di ogni avventurismo politico. È giunta l’ora di pensare in modo netto e forte. Di cominciare a pensare in termini di vera e propria salvezza della Repubblica, come fu altre volte nella nostra storia allorché si trattò di salvezza nazionale. Stiamo attenti: il punto di non ritorno potrebbe essere più vicino di quanto crediamo.

 

(Il Corriere della Sera – giovedì 18 maggio 2018)

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