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01 Aprile 2018 ~ 0 Comments

Sovranismo e globalizzazione. Alle soglie di un nuovo protezionismo

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Il punto di Paolo Pagliaro a 8 e ½ (30 marzo 2018) sottolinea un elemento comune alla nuova generazione di elettori e soprattutto rappresentanti politici: nessuno di loro sa cosa sia una guerra, agitano la bandiera del proprio paese o di una frazione del medesimo, auspicando una ripresa di “poteri” da parte degli stati e non si preoccupano degli effetti di politiche neo-protezioniste o della chiusura delle frontiere e del ritorno a valute locali.

Pagliaro prende in esame ovviamente il lato sovranista di questo ceto politico emergente, anti-europeo, che non considera, e probabilmente non conosce neppure, i caveat dei padri fondatori di Ventotene.

Oggi, leggendo l’ultimo giallo di Peter May, incespico in un’annotazione della protagonista: sono nata tre giorni prima che la Thatcher arrivasse al potere.

Corto circuito socio-culturale. Non posso fare a meno di notare che la Thatcher, come Reagan, per me sono soltanto una nuova e recente generazione di politici, post dittature e post-crollo del protezionismo (Rambouillet 1975).

 

Qualcuno dei sovranisti di oggi ha mai visto questa foto? Io non ricordo il nome del giapponese, ma conosco bene gli altri quattro. A 43 anni di distanza, non solo i giovani sovranisti di oggi, ma la maggioranza dei cittadini non sa neppure cosa sia il protezionismo.

 

 

 

I dazi sulla carta sono caduti nel ’79 (?) e Rambouillet rappresenta, per me, la fine di una fase difficile per l’Italia (paese emergente/inseguitore) e un primo passo verso la globalizzazione successiva (che ha dato all’Italia e al Nordest possibilità di sviluppo inedite).

Il G5 era roba da ridere a fronte del G20 di Barack Obama. E ha aperto la strada non solo all’Italia negli anni ’80, ma anche a molti altri paesi “new comers” (alla fine degli anni ’90).

L’apertura dei mercati ha avuto un significato importante per la mia generazione, che all’epoca ancora sbeffeggiava i tentativi di dialogo tra i cosiddetti “grandi”. Andreotti venduto agli americani, a pochi mesi dalla conclusione della guerra del Vietnam, con Franco e Salazar ancora dietro l’angolo, i colonnelli in Grecia appena usciti di scena, Pinochet attivo in Cile e Videla in Argentina.

Davvero la mia generazione, allevata a pillole di Grande Guerra e frattaglie di Resistenza, in quel momento percepiva l’apertura delle frontiere come un passo avanti (ancora incerto), ma senza dubbio fuori dal mondo grigio delle guerre europee e delle guerre commerciali. Nixon già si era impegnato sui tavoli da ping-pong con il presidente Mao, nel contesto della Guerra Fredda.

La guerra l’abbiamo avuta in casa, negli armadi del parabellum, l’abbiamo sentita raccontare dai nostri genitori e dai nostri parroci. L’abbiamo osservata nei camminamenti della Strada delle Gallerie o del Castelletto, nelle trincee del Col di Lana che ancora vomitavano cartucce, pallottole, elmetti e altri residui dei combattimenti.

La guerra l’abbiamo sentita nelle ossa, raccontata dagli educatori cattolici anti-militaristi, l’abbiamo cantata nelle serate di campeggio e l’abbiamo percorsa a piedi sulle nostre montagne. La Grande Guerra è stato il nostro pane, più ancora della Seconda, che i figli dei partigiani ricordano volentieri, ma tutti gli altri vogliono solo dimenticare.

Ci sono voluti anni per aprire un capitolo nuovo, per immaginare un mondo senza barriere, né fisiche, né commerciali. C’è voluto l’89, la Caduta del Muro, la crisi della Russia di Gorbaciov e di Yeltsin, il gatto nero/bianco di Deng Xiaoping, la crisi dello stato nazione di Ohmae, per convincerci che una nuova era è possibile.

Quando è arrivato l’Euro poi, siamo stati felici. Un passo dal quale pensavamo non si potesse tornare indietro. Eravamo certi di avercela fatta per sempre, soprattutto a Nordest con il nostro modello di sviluppo anomalo, federalista-egualitario, che suscitava l’ammirazione di tutti (Bill Clinton incluso). Eravamo certi: la Seconda Repubblica e i vincoli di Maastricht avrebbero costretto gli Italiani a cambiare, a diventare adulti e competitivi, con i distretti, il federalismo e lo sviluppo locale.

Oggi, di nuovo, per la protervia dei burocrati europei, la stupidità di Trump e le ingenuità giovanili dei Salvini, Di Maio, Meloni torniamo a vedere fantasmi, a pensare che non ce la possiamo fare e che, anzi, rotoleremo indietro.

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