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20 Febbraio 2018 ~ 0 Comments

La vittoria dei “primi”

MDA

La letteratura ha il pregio di catturare il movimento della società, a suo modo, prima dalle analisi politiche, storiche, antropologiche. Davanti al terremoto politico di questi giorni, al prevalere di forze politiche anti-sistema, il pensiero corre a un successo letterario recente, l’Arminuta di Donatella di Pietrantonio (Einaudi, 2017) che ha anticipato tendenze oggi evidenti.

E’ un testo che, fin dal titolo, evoca la cultura regionale, dialettale, come essenza del nostro paese. Si pone l’obiettivo di indagare le radici della nostra civiltà, di aiutarci a guardare dentro le narrative che guidano la storia d’Italia, quella vera, quella che segna le generazioni nel lungo termine, molto più della retorica crociana e gramsciana, nel bene e nel male, e vanno oltre la cittadinanza superficiale delle frasi fatte, delle istituzioni “immateriali” di Prima e Seconda Repubblica.

Il pregio de L’Arminuta è quello di entrare nelle crepe dell’identità italiana, mettendo a confronto due mondi, due “partiti” che dividono l’Italia, in ogni regione, e costituiscono “LA” frattura “nazionale”, la divisione sociale profonda, che supera quella linguistica, regionalistica, politica, di classe, religiosa, di fede sportiva. Mi riferisco alla divisione tra italiani “educati alla vita e ai luoghi comuni della lingua parlata” e italiani che, invece, sono “educati alla scuola e ai luoghi comuni della cultura scritta”.

Neanche a dirlo i “primi” sono la maggioranza, in Italia, in tutte le regioni del Nord e del Sud, accomunati dalla stessa passione per il bar e la televisione, mentre i “secondi” sono una minoranza dispersa, sommessa, poco invadente, anche se non priva di poteri, accomunata dalla passione per la lettura, le scienze, le pubbliche istituzioni.

I “primi” sono quelli del “prima noi”, per ragioni di lingua, tradizione, disperazione, attaccamento agli ultimi. I “secondi” sono quelli del “prima chi lo merita”, per ragioni di educazione, per ceto o perché sono allenati a competere e sicuri di vincere.

Nel libro della Di Pietrantonio la protagonista, l’arminuta, è una giovane donna allevata in seno alla comunità dei “secondi”, che si trova rimpatriata nella comunità dei “primi”, di botto, senza preavviso. E non che la comunità dei “secondi” fosse davvero un paradiso per lei…

Le tensioni emotive dell’Arminuta corrispondono a quelle provate da molti italiani che, in questi giorni, si trovano a “disagio” nel mondo dei “primi”. Perché si sentono, più che rifiutati, incompresi. Uomini e donne che pure accettano gli usi, i costumi, le narrative, i difetti, l’epica dei “primi”, mossi da una sincera adesione democratica al loro destino, che vorrebbero cambiasse nel corso del tempo, ma che non possono contrastare.

Sono essi in drammatico conflitto personale con il “prima noi” della maggioranza esclusiva, nel Veneto di Parise così come nella Sicilia profonda di Camilleri, nella Toscana di Malvaldi, nella Bari di Carofiglio e nella Napoli di Sandor Marai e Maurizio De Giovanni. E nello stesso tempo lo comprendono maternamente e non lo condannano “paternalisticamente”.

Sono percorsi da una vera sofferenza esistenziale, poiché si rifiutano di rifugiarsi nello snobismo, nell’anti-nazionalismo (regionalismo o esterofilia), nella anti-empatia nei confronti dei “primi”. Ritengono uomini come Vincenzo e donne come Adriana propri fratelli (lo sono nella famiglia romanzesca dell’arminuta come nella realtà politica e culturale dell’Italia di oggi).

Di fronte ad essi i “secondi”, sentendosi “fortunati”, si percepiscono in una posizione scomoda, dalla quale non vedono l’ora di uscire, appena possibile, attraverso non solo la distribuzione di affetto e devozione letteraria, ma soprattutto di progetti sociali e politici.

Sentivo già di doverla ripagare per certe fortune di cui godevo, rispetto a lei. Eppure tra noi due non sembro io la più adatta alla vita.”.

Così confessa l’Arminuta in un passaggio chiave del libro, riferendosi alla sorella Adriana, protesa nella conquista di una maggiore autonomia personale, di un primato che sfugge continuamente, di un riscatto sociale fortemente desiderato.

Tra questi uomini e donne, “in debito” esistenziale coi “primi”, trova posto, come noto, il sommo poeta della lingua italiana, espulso dalla comunità d’origine e costretto a vivere da migrante nella sua stessa patria, arminuto anche lui a ospiti poco graditi. Nel gruppo dei “secondi” trovano posto tanti buoni italiani (buonisti?), appassionati della propria lingua e del proprio dialetto, come Gransci, Pier Paolo Pasolini, il Goffredo Parise dei Sillabari e l’impareggiabile Meneghello di Libera Nos a Malo.

Il libro della Di Pietrantonio estremizza questo dramma nazionale italiano, la tragedia delle famiglie, la spaccatura esistenziale tra i “primi” dominanti nella galassia delle comunità regionali e i “secondi” migranti, esclusi, lasciati ai margini del paese, costretti a vivere da ospiti indesiderati in casa/propria o altrove. Incapaci di reagire con rabbia e rancore ai torti subiti, ma anche incapaci di tradurre la propria sofferenza in progetto politico, in sintesi superiore della frattura nazionale che avvertono.

Sono cominciati così gli anni della vergogna. (…) Ho costruito una favola possibile per giustificare agli altri, agli insegnanti, compagni di scuola, la famiglia deserta che mi vedevano attorno”, dice la protagonista all’inizio della parte finale (quella dedicata ai legami personali, unici e irripetibili), senza tuttavia trovare un assetto, un ruolo, un sistema di accoglienza, una comunità di pari e parenti, che la sostenga. Disperata dal despatrio irrisolto.

E la domanda implicita che si pone è: c’è una parte dei “primi” che io possa recuperare, redimere? E come?

L’avidità della sorella Adriana, la sua ricerca istintiva di una via d’uscita dal mondo dei “primi”, di una convergenza con il mondo dei “secondi”, che riconosce migliore per sé, apre una speranza. Grazie alla sua intelligenza popolare e al suo senso pratico, riesce a captare il bandolo di una via d’uscita, mentre la maggior parte degli altri (primi) di famiglia continua a fare pasticci, a sguazzare nella miseria, intrappolata nelle sabbie mobili di una tradizione esclusiva/divisiva.

Non ho idea di quale movimento culturale e politico possa affrontare, seriamente, questa frattura, per rilanciare un progetto costituente davvero innovativo per il paese, capace di portare le nostre comunità ad apprezzare il contributo dei “secondi” integrati ai “primi”, investendo in modo nuovo sui luoghi della convergenza e dell’integrazione (parlo di quella interna al nostro popolo diviso) per far rifiorire fabbriche, scuole e botteghe dell’arte, in un nuovo Rinascimento italiano che rompa gli schemi di una cittadinanza formale, costruita su narrative posticce, riscattando l’identità millenaria dei territori, scatenando le forze dell’innovazione che ancora possono soffiare sul fuoco della produttività e dello sviluppo dei borghi, collegati in rete con le città metropolitane.

Tuttavia qualcuno dovrà provare a riscrivere la tragedia nazionale da un nuovo punto di vista, per riportare l’Italia nel novero dei paesi “moderni”, attraverso una strada diversa da quella annunciata dai programmi governativi, soprattutto in quest’epoca di populismo imperante, nella quale mancano progetti veramente efficaci.

Dove si ferma il romanzo, che ha già fatto molto evidenziando una faglia sociale poco esplorata, può forse prendere avvio lo storyboard tecnico-politico di un “sistema paese” più avanzato e integrato di quello attuale.

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