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06 Ottobre 2016 ~ 0 Comments

Default popolari e futuro del credito nel Veneto

MDA

Sulla base dei primi calcoli approssimativi, la situazione può essere descritta come segue:

  • il capitale “bruciato” nel corso del 2015 ammonta a 4.7 miliardi di Euro   (dei quali 1.6 a carico delle imprese e 3.1 a carico delle famiglie); le stime sono calcolate per eccesso, in base all’ipotesi che tutti gli investitori abbiano acquisito le azioni a valore 2015; il default complessivo delle due banche ammonta a 8.5 miliardi di Euro[1], nel periodo considerato, ma pesa per 3.8 miliardi su operatori e risparmiatori di altri territori;
  • per quanto riguarda le imprese (14.000 circa per 1.6 miliardi di Euro totali) la perdita media è di 115 mila Euro; il 35.9% nel terziario avanzato (holding a capo di gruppi, società specializzate in servizi e comunicazione), il 21.1% nel settore immobiliare e costruzioni, il 16.7% nel commercio e il 14.7% in manifattura; per quanto riguarda le famiglie (90.000 circa per 3.1 miliardi di Euro totali) la perdita media è di 34 mila Euro; le perdite sono concentrate prevalentemente nelle province di Vicenza e Treviso[2];
  • il 45% dei fondi “bruciati” a supporto dell’economia veneta proviene da risparmiatori “esterni” e, nonostante il probabile futuro contenzioso, questa quota non ha un impatto diretto e immediato sull’andamento delle attività produttive e dei consumi nella regione.

Al di là delle cifre, l’approfondimento effettuato finora evidenzia un problema di più ampia portata: non sono entrate in default due “aziende” bancarie, mal gestite e da ristrutturare, ma è entrata in crisi un’intera industria.

I dati sulle perdite delle banche italiane che non lasciano dubbi in proposito.

Come è possibile che tutte le banche (con l’eccezione forse delle BCC) si siano dimostrate impreparate ad affrontare le nuove regole del mercato europeo? Possiamo pensare che nel settore del credito stia oggi accadendo qualcosa di analogo a quanto successo, in passato, in altri settori dell’economia (come il trasporto aereo e le telecomunicazioni) nei quali l’assenza di organizzazione, economie di scala, meccanismi efficienti di selezione dei dirigenti e degli amministratori, ha spinto le imprese italiane fuori mercato? C’è la possibilità di riorganizzare il sistema bancario veneto, magari con l’aiuto di qualche gruppo esterno, oppure dobbiamo pensare che sia iniziata una fase di declino strutturale di questa attività nel nostro territorio?

Per trovare una risposta a queste domande, il parere di una task force indipendente sarebbe quanto mai utile, sia per gli operatori economici, che per le famiglie. Ma una simile task force, anche se auspicata dai responsabili delle associazioni delle imprese, non è all’ordine del giorno, né in Regione, né nelle associazioni e istituzioni economiche come le Camere di Commercio, né all’interno del mondo accademico regionale[3].

In questo momento è in gioco la “credibilità” delle nostre istituzioni, delle stesse camere di commercio, delle associazioni di categoria delle imprese (Confindustria in particolare), delle forze di governo… che non hanno saputo controllare la situazione e canalizzare il risparmio verso impieghi sicuri. L’avvio di una riflessione seria, in ambito veneto, sui criteri di allocazione delle risorse potrebbe forse arrestare la crisi di fiducia nel modello regionale. Ma, come già detto, non è all’ordine del giorno. Si procede con riunioni riservate in diversi ambienti, ma senza l’obiettivo di dare conto ai risparmiatori.

Agli occhi di questi ultimi, la classe politica regionale è complice del default tanto quanto il “jet set” imprenditoriale che ha gestito le banche, in nome degli interessi di “territorio”. A nulla vale il tentativo di scaricare sulle istituzioni nazionali, sulla Merkel o sugli organismi di controllo europeo (BCE) la responsabilità del default.

Se è entrato in crisi il tradizionale meccanismo di raccolta e impiego del risparmio delle famiglie, non basta accompagnare i risparmiatori traditi verso nuovi fornitori dello stesso servizio (italiani o europei). Bisogna verificare se l’introduzione di un nuovo meccanismo sia in grado di assicurare condizioni di crescita e di sviluppo al “territorio” veneto. I dubbi sul ruolo del Fondo Atlante sono molti. Non è solo un problema di governance e trasparenza nella gestione di alcune aziende bancarie, quello che emerge dalla nostra analisi preliminare, ma anche un problema di allocazione del risparmio, che deve essere reimpostato e risolto in termini innovativi, per il futuro sviluppo del territorio Veneto.

La funzione del sistema bancario “territoriale” può essere paragonata a quella della Pubblica Amministrazione: offre un servizio di raccolta di fondi a supporto degli investimenti locali (ritenuti più sicuri e produttivi di altri disponibili in Europa e nel mondo). Se gli impieghi però non sono efficienti (o vengono indirizzati a spese correnti e investimenti sbagliati) non c’è solo un problema di trasparenza e di governance, ma anche di impostazione delle politiche di sviluppo. Basterà il merito secondo Basilea o basteranno gli algoritmi propri di agenti bancari globali per far meglio dei nostri direttori e tecnici fidi di lungo corso?

L’Italia è (quasi) uscita dal trasporto aereo, senza conseguenze per i cittadini e i consumatori. Può accadere lo stesso in materia di risparmio? Il nostro paese continua a essere efficiente in segmenti particolari di molte catene globali, anche se non è capofila della filiera.

Nel settore dell’occhialeria, della moda e del food grandi imprese come Luxottica, Prada, Armani, Eataly… tengono posizioni di testa. In altri settori hanno passato la mano o stretto accordi con partner stranieri, senza gravi conseguenze. Idem per alcuni settori di servizio importanti: trasporto aereo, telefonia e telecomunicazioni, informatica…

E’ giusto associare la crisi del settore bancario al destino di altre industrie che si sono ristrutturate a livello globale, oppure dobbiamo associarla alla crisi delle grandi “organizzazioni di servizio” pubblico (province, agenzie regionali per l’innovazione, associazioni di categoria, camere di commercio…)?

Il calo della produttività totale dei fattori non è forse determinato proprio dalla crisi/inefficienza di queste attività di servizio, che sono tra loro collegate anche all’interno del territorio veneto?

In assenza di un governo europeo e mancanza di un ordo-liberalismo nazionale, possono le istituzioni venete attivare un autonomo percorso di politica per l’industria, e per l’industria bancaria in particolare? Quando Zaia insiste sull’importanza di un polo bancario regionale cosa ha in mente? Cosa hanno in mente i dirigenti delle istituzioni e delle associazioni economiche territoriali? Possono esprimere una valutazione condivisa della crisi del sistema regionale (fino a ieri modello invidiato in tutta l’Europa, meritevole di rating lusinghieri) e una proposta di ristrutturazione?

E’ chiaro che rispondere a queste domande significa uscire dal tema squisitamente “aziendale” delle due popolari, ma il fallimento di due importanti banche “di territorio” pone inevitabilmente questioni di più ampia portata.

La costituzione di una task force regionale formata da esperti di gestione delle imprese bancarie, ma anche di tecnici della programmazione, potrebbe servire allo scopo di riflettere su queste questioni, arrivando a proposte interessanti per tutti gli attori della filiera. Un simile struttura potrebbe avere un’importante funzione culturale: disegnare un possibile modello di banca che oltre ad ereditare la raccolta delle due popolari fallite, sia coerente con la struttura economica e sociale del Nord Est.

In assenza di essa possiamo cercare, con i pochi mezzi a nostra disposizione, di riflettere sui problemi aperti dalla crisi delle popolari e cercare di assumere una posizione utile al dibattito regionale.

 

[1] Se si considera il valore massimo delle azioni, raggiunto nel 2014, il capitale bruciato complessivamente sale a 11.1 miliardi di Euro, di cui 6.1 nel Veneto (2.1 a carico delle imprese e 4 a carico delle famiglie).

[2] A proposito di queste cifre, vale la pena di ricordare che, più che alla media, vale fare riferimento alla mediana. Pochi grandi finanziatori (quelli sentiti in questi giorni dalla Finanza) hanno un carico di perdite in conto capitale significativa, mentre molti piccoli risparmiatori hanno un carico ben inferiore ai 10 mila Euro.

[3] In fondo proprio le imprese hanno ricevuto più risorse di quanto meritavano e sarebbe male interpretato uno studio che ne prendesse le difese in modo separato dai risparmiatori.

 

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