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14 Settembre 2013 ~ 0 Comments

Capacità locali. Per una nuova economia dei territori produttivi

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Capacità locali. Per una nuova economia dei territori produttivi

Giancarlo Corò e Paolo Gurisatti

 

1. Introduzione. Un percorso di ricerca per uscire dalla crisi

La crisi che l’Italia sta attraversando è destinata a durare a lungo. Anche perché è una crisi che viene da lontano e che la recessione iniziata nel 2008 ha reso più evidente e profonda. E’ una crisi che ha diverse cause, che in parte tendono a sovrapporsi, il che rende più difficile uscirne senza mettere in discussione alcuni elementi fondamentali di un modello di sviluppo che nel corso del ‘900 aveva assicurato tassi di crescita fra i più elevati in Europa. Secondo i dati ricostruiti da Angus Maddison (2003) e ripresi poi da William J. Baumol (2010), fra il 1900 e il 2001 il Pil reale pro-capite dell’Italia è cresciuto di un multiplo pari a 10.67, un valore doppio rispetto al Regno Unito (4.88) e superiore a quello della Germania (6.26), della Francia (7.66) e della Svezia (8.03). Solo il Giappone ha saputo fare meglio (17.53), mentre l’economia degli Stati Uniti ha marciato ad un ritmo inferiore (6.83). Certo, in questi calcoli di lunghissimo periodo ha un peso rilevante la diversità dei livelli di partenza. All’inizio del XXI secolo il reddito pro-capite (in parità di potere d’acquisto) era in Italia di poco superiore ai 2.000 dollari (in Giappone 1.700), contro un valore più che doppio di Francia e Germania, e addirittura triplo per USA e UK. Ciò nonostante è fuori dubbio lo straordinario risultato della crescita economica dell’Italia, in particolare nel periodo della ricostruzione post-bellica, ma che si proietta con modalità originali nelle regioni del Centro-Nord Est anche dopo gli anni ‘70. Nel 2000 rimaneva una distanza significativa nei livelli del reddito solo nei confronti degli Stati Uniti, dove il Pil pro-capite risultava superiore del 40% a quello medio dell’Italia (ma nel 1950 il rapporto era 3,5 a 1). Tuttavia, rispetto alle altre principali economie europee la rincorsa poteva dirsi quasi completata. A partire dalla seconda metà degli anni ’90 l’Italia mostra invece la più bassa crescita del Pil fra i Paesi Ocse e, in particolare, una pessima performance della produttività totale dei fattori, che misura la capacità dell’economia di un Paese di impiegare in modo efficiente le risorse e promuovere l’innovazione (Corò, 2012).

Cos’è avvenuto per modificare in modo così rapido le prospettive di un’economia che fino allo scorso decennio era annoverata fra i casi di successo del capitalismo industriale?

I processi di sviluppo sono fenomeni complessi, in cui si intrecciano le caratteristiche specifiche di un territorio – economiche, sociali, istituzionali – con tendenze di natura più generale. In altri termini, il ciclo espansivo di un’economia si manifesta quando le capacità locali riescono ad entrare in sintonia con le correnti del tempo – culturali, tecnologiche, di mercato – e si trasforma invece in declino quando questo structural coupling non funziona più.

La lettura che da più parti è stata fornita è che l’economia italiana ha sofferto più di altre il cambiamento del contesto competitivo che si apre all’inizio degli anni ’90. In quel periodo prende infatti corpo la rivoluzione digitale che investe l’economia e, allo stesso tempo, si manifestano rilevanti fenomeni geo-politici che segnano una nuova fase dello sviluppo globale. Di fronte a questi cambiamenti l’Italia ha dunque mostrato nel suo insieme una ridotta capacità di reazione. Ma è proprio questo il punto: com’è potuto accadere che un’economia basata in larga parte sul modello della “specializzazione flessibile” non abbia saputo adattarsi alle novità che si prospettavano nell’economia mondiale? Com’è possibile che nella varietà dei sistemi produttivi locali di cui l’Italia è ricca non abbiano ancora preso consistenza efficaci percorsi di innovazione, tali da indicare al resto del Paese le strade possibili per uscire dalla crisi?

L’ipotesi interpretativa che proponiamo in questo articolo è che per una serie di ragioni collegate a vincoli macro-economici – in particolare il peso del debito, il regime dell’euro, la concorrenza internazionale – ma, soprattutto, al ciclo politico-istituzionale, in Italia si sono progressivamente indebolite le capacità degli attori locali di organizzare le risorse per lo sviluppo e fornire spazi di iniziativa a chi vuole investire nell’innovazione. Paradossalmente, questo avviene proprio in corrispondenza all’enfasi data nel dibattito politico nazionale ai temi dell’autonomia, del federalismo e delle liberalizzazioni. Tuttavia, tali manifestazioni politiche altro non sono che il tentativo, rivelatosi finora scarsamente efficace, di reagire alle crescenti rigidità del sistema-Paese, che in questo senso manifesta una tendenza esattamente opposta a quanto richiederebbe la nuova situazione. Con l’aumento di complessità dell’ambiente competitivo, l’economia ha infatti bisogno di assetti istituzionali che non solo siano in grado di assicurare i diritti di proprietà e fornire alcuni tradizionali beni collettivi, ma anche di lasciare spazi di manovra per l’esplorazione imprenditoriale e favorire relazioni generative fra gli attori dello sviluppo. In altri termini, in situazioni di incertezza sono quanto mai necessarie istituzioni di tipo inclusivo nel significato attribuito a questo concetto da Acemoglu e Robinson (2012): regole politiche ed economiche che premiano l’entrata di nuove idee e nuovi progetti imprenditoriali nei processi di sviluppo, senza dimenticare la capacità di gestire gli effetti sociali del processo di distruzione creativa.

In questo senso, la nostra ipotesi interpretativa ha evidentemente anche un risvolto politico: l’Italia potrà uscire dalla crisi e riprendere un cammino di crescita sostenibile solo liberando le capacità dei territori di auto-organizzare le risorse umane, imprenditoriali e ambientali di cui dispongono. Questo non significa riproporre vecchi schemi di laissez faire, tanto meno indulgere verso improbabili idee di indipendenza locale. Al contrario, la nostra opinione è che una nuova stagione di sviluppo è possibile solo facendo maggiore leva sulle capacità politiche e imprenditoriali presenti nei diversi territori, di produrre beni comuni utili ad una crescita inclusiva e sostenibile. La quale, a sua volta, presuppone relazioni di interdipendenza sempre più forti con l’evoluzione culturale, scientifica, tecnologica e di mercato che si disegna nell’economia mondiale. E’ stato questo, del resto, il modo con cui l’Italia dei distretti e delle piccole imprese ha contribuito a portare alcune regioni “periferiche” ai vertici dello sviluppo industriale europeo. Come diremo meglio più avanti, questo modello ha ancora molto da dire sui dispositivi sociali dello sviluppo, ma certamente la spinta dei tempi eroici si è in parte esaurita proprio perché sono venute meno le capacità di accoppiare le risorse locali con l’evoluzione delle reti di conoscenza e dei mercati mondiali. Tuttavia non mancano in Italia alcune originali esperienze locali che, sia pure a fatica e non senza problemi e contraddizioni, mostrano di voler intraprendere nuovi percorsi di sviluppo. In particolare, mostreremo come nelle regioni del Nord Est stiano avanzando promettenti tentativi di creare comunità sostenibili sia dal punto di vista ambientale che produttivo.

Prima di entrare nello specifico di questi casi è però necessario chiarire alcuni aspetti interpretativi. Innanzitutto l’analisi di una crisi che non è solo economico-finanziaria, ma anche di competitività internazionale, sostenibilità ambientale e, soprattutto, capacità istituzionale (par. 2). In secondo luogo dobbiamo trovare una definizione di sviluppo che ci aiuti a superare il concetto e le corrispondenti misure basate sui flussi lordi di produzione di breve periodo, per andare invece verso un’idea di crescita sostenibile e inclusiva, fondata sulla valorizzazione delle ricchezze ambientali, umane e sociali di un territorio (par. 3). Il terzo è la necessità di riprendere le fila di un discorso sui localismi produttivi, che in Italia è stato a lungo segnato dalla vicenda dei distretti industriali (par. 4). L’obiettivo è recuperare, per quanto possibile, gli elementi ancora oggi utili di un patrimonio di esperienze e capacità produttive che sarebbe assurdo disperdere. Tuttavia, è la stessa evoluzione dei sistemi manifatturieri più dinamici – con lo sviluppo di relazioni sempre più aperte alle catene di produzione globale, ma anche con la crescente difficoltà di auto-riproduzione endogena delle risorse collettive, come la conoscenza, necessarie alla competizione moderna – a richiedere di aggiornare il concetto tradizionale di distretto industriale per aderire, invece, ad un’idea più aperta di territorio produttivo, il cui sviluppo dipende da un insieme di capacità locali di organizzare, gestire attivamente e dare senso ai progetti di innovazione (cap. 5). Nei successivi cap. 6 e 7 verranno allora presentati alcuni casi tratti da esperienze del Nord Est che indicano la possibilità di avviare percorsi di crescita verso nuovi territori produttivi.

 

2. Caratteri di una crisi che viene da lontano

Come è oramai evidente, la crisi dell’economia italiana non è un episodio passeggero. Non si tratta, come in altre occasioni, del semplice attraversamento di una fase difficile all’interno di un ciclo comunque espansivo. Una crisi così lunga e profonda presuppone l’intreccio di più cause, perciò anche i piani di analisi da prendere in considerazione devono essere diversi. Proviamo allora a richiamare almeno cinque aspetti che, nostro avviso, risultano particolarmente rilevanti nello spiegare la crisi italiana: cambiamento tecnologico, nuovo scenario geo-economico, i costi di sostenibilità dello sviluppo, il regime macro-economico dell’Euro, il ciclo istituzionale.

 

Una ridotta capacità di adattamento al nuovo sistema tecnologico

C’è innanzitutto la difficoltà dell’economia e della società italiana di adattarsi con la stessa velocità di altri Paesi industriali all’ondata di nuove tecnologie collegate alla rivoluzione digitale (Rossi 2009). In questo ritardo scontiamo la frammentazione del nostro sistema produttivo e le conseguenti minori economie di scala, che hanno ridotto la capacità di sostenere investimenti diffusi in ricerca, innovazione e ri-organizzazione strategica. Un ostacolo alla diffusione di impieghi evoluti delle nuove tecnologie dell’informazione è stato anche il localismo dei distretti, che aveva fornito attraverso la condivisone dei linguaggi di produzione una “infrastruttura sociale” straordinariamente efficace di comunicazione fra imprese. Questa infrastruttura sociale di comunicazione produttiva basata su “reti senza tecnologia” ha rappresentato per molti versi un fattore di lock-in all’adozione di applicativi avanzati (Corò e Micelli, 2006).

Oltre a questo vincolo tecnologico, l’innovazione è stata ostacolata anche dalla scarsa capitalizzazione delle imprese e dall’eccessiva dipendenza dal debito bancario. Questa condizione ha reso più difficile trovare le risorse finanziarie necessarie per progetti di investimento a rischio più elevato e contraddistinti da maggiori a-simmetrie informative, come per l’appunto sono quelli innovativi (Bugamelli et al., 2012). La crisi finanziaria iniziata nel 2008 ha ulteriormente aggravato questa situazione: diverse imprese che avevano avviato coraggiosi processi di innovazione si sono infatti trovate travolte dalle politiche di razionamento del credito.

Non possiamo inoltre dimenticare una particolare forma di sotto-capitalizzazione che colpisce l’Italia: quella del capitale umano (Cipollone e Sestito, 2010; Visco, 2009). Avere per molto tempo sottovalutato gli investimenti in istruzione e formazione – una responsabilità ben distribuita tra famiglie, imprese e istituzioni – ha ridotto in misura significativa le capacità di assorbimento tecnico e, di conseguenza, la velocità di adozione delle innovazioni più complesse.

 

Un nuovo scenario geo-economico

Questo ritardo non sarebbe tuttavia stato così grave se, nel frattempo, non fosse cambiata così rapidamente anche la geografia dello sviluppo, con l’emergere sulla scena mondiale di vaste regioni un tempo escluse dalla divisione del lavoro. Questa nuova geografia ha modificato radicalmente il contesto competitivo, facendo uscire dal mercato le imprese più deboli e spingendo quelle più forti verso una riorganizzazione internazionale delle reti commerciali e produttive.

C’è una evidente relazione fra globalizzazione e nuove tecnologie: è anche grazie a queste se si sono drasticamente abbassati i costi di transazione internazionale, rendendo accessibili nuovi mercati a basso costo del lavoro e aumentando i margini di commerciabilità globale (offshorability) di beni, servizi e fasi di produzione. Una ragione che spiega tale diffusione e l’efficacia del conseguente processo di rincorsa (catch-up), è collegata anche alla natura delle nuove tecnologie: diversamente dagli impianti dell’industria tradizionale il cui sviluppo presuppone lunghi e costosi processi di accumulazione di capitale fisico (privato e pubblico), le tecnologie digitali e le conoscenze produttive ad esse collegate hanno una natura più immateriale, anche se non esclusivamente tale. Inoltre, grazie anche alle nuove tecnologie di comunicazione, le conoscenze circolano molto velocemente e la loro valorizzazione economica richiede investimenti in capitale umano piuttosto che fisico. In altri termini, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno creato un’infrastruttura che ha contribuito ad abbassare i costi di diffusione e controllo a distanza dell’innovazione, moltiplicando il valore associato alle economie di replicazione (Rullani, 2004).

Tuttavia, non tutto è dipeso dalle tecnologie. Per superare le barriere che per decenni avevano isolato intere regioni del mondo era necessario che all’interno di alcuni Paesi maturassero nuove istanze politiche e sociali che vedevano nell’apertura al mercato globale una opportunità per affrancarsi dalle condizioni di sottosviluppo. A quanti vedono nella globalizzazione un’operazione guidata da pochi gruppi multinazionali per dominare il mondo, va forse ricordato che nessuna motivazione sarebbe stata più forte di quel miliardo di abitanti dell’Asia che, anche grazie all’apertura ai mercati internazionali, è riuscito a superare la soglia della povertà assoluta (Kenney, 2012). Lo sviluppo tecnologico dei paesi industriali avanzati e la mobilitazione sociale contro la povertà di alcune grandi aree del pianeta hanno dunque rappresentato i motori che hanno spinto l’economia verso una nuova e inevitabile convergenza (Spence, 2012). Il problema che si apre per le aree ricche del pianeta, Italia compresa, è quale ruolo giocare in questo processo di convergenza. La perdita di posizioni relative conseguente alla nuova geografia dello sviluppo non comporta necessariamente anche un impoverimento assoluto. Anzi, la crescita di nuove aree di consumo può ridare fiato ad industrie mature – dall’automotive alle costruzioni, con le ampie filiere collegate – che già intravedevano lo spettro del declino. Tuttavia, per intercettare questa domanda non si può solo pensare di esportare nelle economie emergenti gli stessi beni prodotti nella base domestica, quanto cercare di ridefinire con coraggio i propri vantaggi competitivi, sviluppando nuovi settori e, soprattutto, nuove funzioni all’interno delle catene globali del valore (Corò, 2013).

 

Una crisi di sostenibilità

Fra le conseguenze dell’entrata di nuovi protagonisti nello sviluppo mondiale c’è stata anche la maggiore pressione esercitata sulle risorse impiegate nei processi produttivi e di consumo. Alcuni segnali premonitori della crisi finanziaria erano del resto evidenti proprio nella forte crescita dei prezzi delle commodities energetiche e alimentari (Stiglitz, 2010). L’effetto immediato di tale crescita si è manifestato nella compressione dei margini per investimenti produttivi e sul reddito disponibile per altri consumi. Nel breve periodo il risultato è depressivo sia dal lato della domanda, sia dell’offerta. Infatti, mentre la crescita dei prezzi comprime la domanda di beni e servizi, la riduzione del tasso di investimento indebolisce i processi di innovazione, dunque anche la dinamica della produttività. Nel medio-lungo termine alcuni di questi problemi possono essere superati attraverso meccanismi di aggiustamento. Ad esempio, il cambiamento dei prezzi relativi di alcune fonti energetiche (come l’aumento differenziale del costo della benzina) invia segnali ai mercati che reagiscono attraverso nuove strategie di consumo (auto che consumano meno o impiegano carburanti alternativi, oppure con la scelta del trasporto pubblico), e con la ristrutturazione energy-saving dei prodotti e dei processi produttivi. Anche il patrimonio abitativo – responsabile in Italia di circa metà dell’intero consumo energetico – può essere nel tempo adeguato per rispondere alla nuova struttura dei prezzi delle materie prime. Tuttavia, è evidente che questi processi non sono immediati e, in ogni caso, presentano diversi gradi di adattamento nei singoli Paesi. Per l’Italia, che già era più esposta di altri Paesi alle importazioni di combustibili fossili a causa di scelte energetiche del passato, ha visto perciò accentuare le differenze nei tassi di sviluppo in parallelo alla maggiore difficoltà di adozione delle tecnologie digitali. Anche in questo caso ci troviamo tuttavia di fronte ad una struttura di offerta – energetica, industriale, edilizia, della mobilità, ecc. – che, alla fine, appare più rigida di altri Paesi nel trovare risposte al nuovo scenario (Sylos Labini 2010).

Inoltre, la crescita di consumi di risorse non rinnovabili e, in particolare, le maggiori emissioni di CO2, hanno avuto conseguenze anche su un altro fronte caldo della sostenibilità ambientale: quello dei cambiamenti climatici. Questi cambiamenti, come ha documentato il famoso rapporto Stern (2007), si traducono anch’essi in rilevanti costi umani ed economici. Se nel breve periodo gli investimenti pubblici per gestire i danni ambientali possono avere qualche effetto sulla crescita del prodotto lordo, il tendenziale aumento dei rischi indebolisce la capacità della spesa pubblica e deprime gli investimenti privati. Per l’Italia, oltre a considerare i rilevanti costi per la messa in sicurezza idraulica e geologica del proprio territorio, non possiamo sottovalutare i problemi di adattamento economico delle aree a vocazione turistica, in particolare quelle di montagna.

In definitiva, nella misura in cui i problemi di sostenibilità dello sviluppo hanno esposto il Paese al maggior rischio di crisi ambientali, hanno anch’essi contribuito ad abbassare il potenziale di crescita dell’economia italiana.

 

Il regime macro-economico dell’Euro

Allo scenario tecnologico e geo-politico che iniziava a delinearsi già alla fine degli anni ’80 l’Europa ha cercato di rispondere con un forte impulso all’integrazione economica e politica. L’Euro ha rappresentato uno dei risultati più avanzati di questo progetto. Tuttavia, a causa anche della sottovalutazione di alcuni ostacoli all’integrazione, l’Euro ha generato effetti diversi nel tempo fra Paesi, mettendo in discussione i principali presupposti di un’area valutaria. Per l’Italia, in particolare, il vantaggio macroeconomico dell’unione monetaria si materializza subito con l’abbassamento degli interessi sul debito pubblico per un valore di circa 30-35 miliardi all’anno. Purtroppo, questo beneficio non viene se non minimamente impiegato per azioni virtuose, quali potevano essere la riduzione dello stock del debito, l’aumento del volume degli investimenti in capitale fisso sociale e in capitale umano, oppure la riduzione della pressione fiscale. In realtà, invece che investito su asset strategici, gran parte del dividendo macroeconomico dell’Euro è stato in Italia bruciato in spesa pubblica corrente, esponendo così la finanza pubblica ai rischi di shock esterni. Con il precipitare della crisi del 2008 la difficile sostenibilità del debito è diventata sempre più evidente, con effetti che ancora oggi non è facile prevedere. Di sicuro, comunque, la politica fiscale diventa sempre più rigida e pesante, causando sia una riduzione degli spazi di autonomia della spesa locale, sia un fattore depressivo per gli investimenti delle imprese.

La trasmissione degli effetti dalla crisi dal piano finanziario a quello reale è stata in Italia particolarmente violenta. Ciò è dovuto anche al fatto che nemmeno il sistema delle imprese ha mostrato di muoversi bene all’interno del nuovo regime macro-economico dell’Euro. Sono infatti diverse le strategie che le imprese potevano adottare all’interno di un regime monetario che tende ad apprezzarsi. La prima è quella della crescita di produttività attraverso investimenti in innovazione e nella ricerca di un posizionamento non basato sulla competitività di prezzo (upgrading). Questo significa elevare la gamma dei prodotti esistenti, introdurre più tecnologia e più servizi nella produzione, o anche spostare l’attività in direzione di nuovi prodotti che consentano all’impresa di ottenere un maggiore potere di mercato. Una seconda strategia è quella di sfruttare il miglioramento delle condizioni valutarie per acquisizioni estere e lo sviluppo di reti di fornitura internazionale. Quest’ultima strategia può portare effetti immediati di miglioramento sui bilanci aziendali, ma va anche considerato che, nel medio periodo, corre il rischio di indebolire la filiera produttiva locale e i processi di apprendimento tecnico e organizzativo. Proprio su tale problema si è sviluppato un acceso dibattito non solo in Italia, ma anche negli Usa, dove i processi di offshoring sono stati storicamente rilevanti, arrivando a coinvolgere parti consistenti dell’industria nazionale e degli stessi servizi.[1]

Le imprese possono privilegiare l’una o l’altra delle strategie sopra richiamate, oppure combinarle in un mix che può avere effetti più o meno virtuosi per l’economia. Tuttavia, la strategia più pericolosa è quella che si fonda su un illusorio miglioramento delle ragioni di scambio ottenuto non da una reale capacità competitiva, quanto da un riflesso valutario. A questo punto la crescita delle importazioni erode progressivamente la base produttiva interna in quanto l’economia locale non è in grado di creare nuove attività allo stesso ritmo con cui perde quelle che vengono sostituite. Ed è proprio questo che si è verificato negli ultimi dieci anni in Italia. Calcolando un indice di offshoring come rapporto fra import di prodotti manufatti e valore aggiunto dell’industria in senso stretto, l’Italia passa da un valore del 75% nel 1999 al 112% nel 2011 (Corò e Volpe, 2012). Questo processo non è di per sé negativo per l’economia nazionale, purché una parte dei profitti generati con le attività estere siano re-investiti in nuove funzioni aziendali, tecnologiche e di servizio, con l’obiettivo di rafforzare la competitività dell’impresa e del tessuto produttivo locale. Di tale processo non si rivelano tuttavia segnali sensibili, se non nello straordinario flusso di investimenti in capitale immobiliare che caratterizza soprattutto la prima fase dell’Euro (1998-2005). Ma questo tipo di investimenti avviene con modalità che non aiutano la formazione di capitale proprio nelle imprese, molte delle quali si trovano non a caso duramente esposte alla crisi finanziaria quando questa coinvolge il sistema bancario.

 

Una crisi istituzionale

La vicenda dell’Euro è esemplare di come la politica e l’economia italiana hanno reagito ad un passaggio critico della propria storia. Invece di cogliere l’occasione di impiegare le risorse create per affrontare i nodi irrisolti dello sviluppo nazionale – ridurre l’indebitamento pubblico, accrescere la dotazione di capitale fisso sociale, di capitale umano, di capitale proprio e nuove tecnologie nelle imprese, ecc. – la riduzione dei tassi di interesse reale produce un rilassamento finanziario che indebolisce nel tempo la capacità di reagire al cambiamento di scenario. E quando precipita la crisi finanziaria, l’Italia si trova più esposta di altri grandi Paesi industriali al rischio di default.

Le difficoltà dell’Italia non derivano, dunque, solamente dalla crisi finanziaria, nel senso di un cortocircuito nella regolazione dei mercati dei capitali. Né attiene solo alla sfera economica, cioè alle capacità di organizzare i fattori produttivi e creare valore utile alla società tramite il mercato. Non è solo questo che è venuto meno. A ben vedere, l’evidente affanno delle imprese è una conseguenza, più che la causa, di una crisi economica che riguarda invece le regole più generali che governano il funzionamento di una democrazia complessa com’è quella italiana. Siamo dunque nel mezzo di una crisi istituzionale, cioè dei meccanismi di coordinamento sociale che rendono possibile un impiego efficiente delle risorse e promuovono l’innovazione. Seguendo la convincente analisi di Acemoglu e Robinson (2012), potremmo dire che la crisi italiana è espressione del predominio di istituzioni estrattive su quelle inclusive. Sono estrattive quelle istituzioni dove chi governa sottrae risorse alla società – tramite un eccesso di fiscalità o altri strumenti coercitivi dal lato pubblico, oppure a causa di comportamenti elusivi e la formazione di monopoli da parte dei privati – senza restituirle in misura almeno corrispondente sotto forma di servizi, investimenti e beni utili allo sviluppo. Sono invece inclusive quelle istituzioni che oltre ad assicurare i diritti di proprietà, incentivano l’innovazione e gestiscono il processo di distruzione creativa attraverso politiche re-distributive, le quali riducono la conflittualità fra gruppi sociali senza frenare l’esplorazione di nuovi percorsi di sviluppo.

La crisi che stiamo attraversando è dunque anche il risultato di un lungo ciclo istituzionale che raggiunge un punto critico già negli anni ’90. Prima di allora il quadro politico risentiva ancora della spinta morale della ricostruzione post-bellica, una fase nella quale in Italia si forma una classe dirigente in gran parte rinnovata. Come ha acutamente osservato Mancur Olson (1983), la sciagura di una guerra persa può trasformarsi in un vantaggio nel medio-lungo periodo se la ricostruzione del Paese parte proprio dal rinnovamento politico e morale delle istituzioni che regolano la società. Questo rinnovamento esercita una straordinaria spinta all’uso efficiente delle risorse, alla produzione di beni pubblici utili allo sviluppo e, più in generale, alla creazione di un clima favorevole a chi investe nell’innovazione. E’ quanto avviene non solo in Italia, ma anche in Germania e Giappone. E non a caso, secondo Olson, proprio queste tre economie diventano a partire dalla seconda metà degli anni ’50 le più dinamiche fra i grandi Paesi industriali. Ma anche il ciclo istituzionale, come quello macro-economico, cambia fase. Questo avviene quando nelle organizzazioni che partecipano alla vita istituzionale tendono a prevalere coalizioni distributive. Questo fenomeno, secondo Olson, è connaturato alla logica dell’azione collettiva: gli individui che agiscono anche per conto di altri – come avviene, in generale, nella produzione di beni pubblici – creano benefici sociali di cui possono solo in minima parte appropriarsi. In altri termini, a fronte del costo individuale necessario per partecipare all’azione collettiva (come avviene attraverso un partito, un sindacato, un’organizzazione di interessi), il beneficio viene invece distribuito pro quota a tutti i componenti della società, indipendentemente dal fatto che abbiano contribuito o meno al suo raggiungimento. Perciò, se viene meno la spinta morale che può motivare all’origine l’azione collettiva, individui e organizzazioni che operano nell’ambito delle decisioni pubbliche rivendicheranno per sé incentivi selettivi, costituiti da una parte crescente delle risorse prodotte dalla società. Questo meccanismo si accentua con l’aumento di complessità sociale e normativa, in quanto l’investimento specifico per partecipare alla gestione degli affari pubblici diventa più elevato, creando barriere all’entrata di nuovi soggetti che potrebbero avere motivazioni morali e idee migliori per l’azione collettiva. Tale processo genera un fenomeno di lock-in istituzionale: chi si trova all’interno del sistema di decisioni pubbliche tende infatti ad elevare le barriere all’entrata – ad esempio tramite sistemi di cooptazione – con l’obiettivo di presidiare il meccanismo distributivo, mentre chi si trova all’esterno incontra crescenti difficoltà a causa degli alti costi di investimento per avere accesso al sistema.

La conseguenza è una crescente rigidità politica, amministrativa e sociale che riduce i margini di azione degli attori più capaci e intraprendenti. I quali, viste le difficoltà di mettere in gioco le proprie capacità, possono decidere di cambiare completamente campo di gioco, portando il proprio talento dove ritengono possa essere meglio valorizzato. Quando questo meccanismo di selezione avversa viene avviato, diventa molto difficile fermarlo, e la conseguenza è un progressivo peggioramento delle qualità istituzionali di un territorio. Il fenomeno è accentuato dalla globalizzazione. Diversamente dai prodotti e dalle tecnologie, così come dalle persone e dalle imprese, le istituzioni sono infatti molto meno mobili sul piano geografico, al punto che – come ha mostrato Patrizia Messina (2012) – è possibile riconoscere la persistenza di modelli regionali di regolazione anche all’interno dello stesso Paese. Come ricorda anche Kenney (2012), le istituzioni sono “tecnologie appiccicose”, cioè estremamente legate al contesto locale. Ecco perché sono così importanti nel decidere il destino di un territorio: dove si sviluppano istituzioni efficienti e inclusive, si creano le condizioni per la crescita del benessere e della prosperità; dove invece si formano istituzioni estrattive e prevalgono logiche distributive, è difficile attrarre gli investimenti innovativi e il capitale umano più qualificato.

 

3. Nuove misure e nuovi significati per uno sviluppo sostenibile

Il peggioramento delle prospettive di crescita nei Paesi industriali maturi, assieme ai problemi sempre più evidenti di sostenibilità dello sviluppo, hanno spinto ad interrogarsi sui limiti delle misure adottate per valutare lo stato dell’economia. Principale imputato, com’è noto, è stato il prodotto interno lordo (Pil), accusato di ridurre ad un’unica dimensione quantitativa la pluralità di aspetti che definiscono la qualità della vita concreta delle persone, nonché condizioni e prospettive di benessere di una comunità nel lungo periodo. Non è nostra intenzione discutere in questo articolo una questione già ampiamente trattata e che vede, del resto, diverse proposte in campo per la costruzione di indicatori alternativi.[2] Vale tuttavia richiamare almeno due aspetti di questo dibattito. Il primo riguarda i principali limiti di un indicatore economico creato oltre ottant’anni fa con obiettivi circoscritti e quando le condizioni dello sviluppo mondiale erano molte diverse da quelle attuali. Il secondo è la necessità di ripensare i significati dello sviluppo impliciti nelle misure adottate. Questo chiarimento è necessario non solo per accrescere la consapevolezza sugli indicatori impiegati, ma soprattutto per dare senso e prospettiva anche ad una nuova politica per lo sviluppo che metta al centro la capacità di creare benessere all’interno di comunità sostenibili e sicure.

Il Pil misura il valore economico, a prezzi di mercato, dei beni e dei servizi finali prodotti nell’arco di un anno all’interno dei confini di un territorio, al lordo dei costi di ammortamento del capitale investito. Già questa definizione mette in luce alcuni seri problemi del Pil come misura dello sviluppo. Innanzitutto il fatto che non tutti i beni e servizi sono scambiati nel mercato, perciò i prezzi vengono spesso attribuiti in modo convenzionale – come avviene nel caso dei servizi della pubblica amministrazione, considerati al costo dei fattori – e non possono perciò registrare il valore economico riconosciuto dal consumatore. In secondo luogo, l’attenzione è rivolta al flusso di produzione aggregata di un territorio nell’arco di un periodo, e non al reddito reale delle famiglie, che dipende sia dal livello di tassazione, sia dal contributo alla produzione all’esterno del territorio di residenza, come avviene se gli investimenti e lo stesso lavoro vengono realizzati oltre frontiera. In terzo luogo, vengono computati nel Pil gli investimenti lordi, senza perciò prendere in considerazione i costi di ammortamento del capitale investito negli anni precedenti, costi che tendono a crescere con il processo di accumulazione. Questi tre limiti sono noti da tempo, ma diventano sempre più rilevanti con lo sviluppo stesso di un’economia che si caratterizza sempre più per l’importanza, al suo interno, di beni e servizi non di mercato (non solo pubblici, ma anche sociali, volontari, in kind, ecc.), per l’apertura internazionale allo scambio dei fattori (investimenti diretti e di portafoglio, capitale umano) e del peso crescente degli oneri necessari a ricostruire il valore utile del capitale investito (basti pensare allo stato delle infrastrutture nelle aree di più vecchia industrializzazione). A questi limiti si sono aggiunte altre critiche riguardanti le disuguaglianze nella distribuzione delle risorse, la pluralità di dimensioni che definiscono nei diversi contesti gli standard di vita e la sostenibilità nel tempo dello stesso processo produttivo. Si tratta di temi in gran parte collegati fra loro e la cui analisi aiuterebbe non solo a migliorare le misure dello sviluppo, ma anche ad individuare le cause delle sempre più ricorrenti crisi degli ultimi decenni.

Secondo Joseph Stiglitz (2010), la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi è una delle ragioni alla base della crisi economico-finanziaria in cui sono precipitati i Paesi ricchi. La polarizzazione della ricchezza produce infatti un duplice effetto negativo sull’economia: innanzitutto un rallentamento della domanda interna a causa di una crescita dei guadagni per le fasce più ricche, che sono anche quelle con una minore propensione marginale al consumo (ogni euro in più guadagnato viene più difficilmente consumato quando è già molto elevato il livello di reddito); dall’altro tendono a crescere i conflitti distributivi – con effetti sulla coesione sociale, sull’ordine pubblico, il tasso di criminalità, ecc. – e, di conseguenza, anche il costo-opportunità delle risorse necessarie a gestirli[3]. Questo fenomeno si collega alle dimensioni non-economiche del benessere che il Pil rischia non solo di trascurare, ma addirittura di contabilizzare con un segno opposto a quello che sarebbe logico. Ad esempio, un aumento delle spese in vigilanza privata o dei costi della giustizia a seguito di una maggiore conflittualità sociale fanno aumentare il Pil, pur denotando una riduzione della qualità della vita. Questa contraddizione c’è anche se consideriamo gli effetti sul Pil dei disastri ambientali (che può portare ad un immediato aumento del prodotto dell’industria delle costruzioni), oppure di un peggioramento delle condizioni di salute della popolazione (che può causare una crescita dei consumi di farmaci), o ancora di un aumento dei costi dell’istruzione superiore (che avrebbe da un lato l’effetto di innalzare nominalmente il valore aggiunto della spesa scolastica e, dall’altro, di aumentare il tasso di attività come conseguenza del disincentivo a proseguire nello studio).

Si potrebbe proseguire a lungo con l’elenco delle contraddizioni del Pil come misura del benessere reale di una popolazione. C’è tuttavia un aspetto che più di altri ne mette in discussione il valore segnaletico come indicatore di sviluppo, quello della sostenibilità di lungo periodo. Gli esempi a cui abbiamo appena fatto cenno presentano, a ben vedere, non solo un problema di coerenza fra misura economica e benessere sociale, ma anche di allineamento temporale: un fenomeno che genera crescita nel breve periodo può in realtà deprimere lo sviluppo nei periodi successivi. Ad esempio, l’impiego eccessivo di una risorsa non rinnovabile – come il suolo, l’acqua, le foreste – riduce la possibilità di impiegare la stessa risorsa in futuro (o, il che è lo stesso, aumenta il suo costo-opportunità marginale). Del resto, il concetto standard di sostenibilità è collegato a questa logica: il soddisfacimento dei bisogni attuali non deve precludere alle generazioni future di soddisfare i propri bisogni. Si tratta di una definizione che arricchisce il significato di sviluppo, ma che lascia tuttavia ancora aperti molti dei problemi che abbiamo considerato sopra, come la disuguaglianza, o una soddisfacente valutazione economica dei bisogni stessi.

Per fare un passo avanti, il concetto di sostenibilità dovrebbe allora fare riferimento alla capacità del sistema economico non solo di produrre una certa quantità di beni e servizi, ma anche di ri-produrre nel tempo le risorse necessarie a mantenere in vita il processo di sviluppo. La questione su cui concentrare l’attenzione diventa, dunque, il valore e la natura delle risorse che rendono possibile la produzione di beni e servizi utili allo sviluppo. In altri termini, mentre il Pil misura il benessere come possibilità di soddisfare i propri bisogni attraverso la produzione di una data quantità di beni e servizi, una misura più adeguata di benessere sostenibile dovrebbe invece considerare il valore attuale degli asset attraverso i quali un territorio può basare i processi di sviluppo oggi e in futuro. Questa definizione si avvicina molto a quanto indicato da Partha Dasgupta dapprima con il concetto di Investimento genuino netto (Dasgupta, 2007) e successivamente con l’Indice di ricchezza inclusiva (UNEP, 2012), cheprende contemporaneamente in considerazione diverse tipologie di capitale – produttivo, umano, sociale e naturale – e ne misura l’evoluzione nelcorso del tempo, fornendo informazioni sulla sostenibilità dellacrescita delle nazioni a lungo termine. Secondo Dasgupta, non si tratta solamente di integrare il Pil con misure più adeguate del benessere, ma di modificare il modo di guardare alle variabili fondamentali del processo di sviluppo. Queste variabili non sono i beni e i servizi prodotti nell’arco di un dato periodo, bensì le risorse che rendono possibile mantenere in vita e accrescere nel tempo la capacità di soddisfare i bisogni di una comunità. Invece che al flusso di reddito lordo, questa idea di sviluppo si rivolge dunque agli stock di ricchezze nette di cui dispone un territorio e che la comunità in esso insediata consuma nel processo di sviluppo, ma allo stesso tempo contribuisce a tutelare ed accrescere. Come abbiamo ricordato, le tipologie di capitale prese in considerazione da questo approccio comprendono non solo quello solitamente misurato dal processo di accumulazione produttiva (strutture, infrastrutture, attrezzature fisiche), ma anche le risorse dell’ambiente naturale, le conoscenze incorporate nelle persone e nelle organizzazioni, la qualità delle istituzioni che regolano la società. Lo sviluppo di un territorio è dunque misurato dalla variazione netta dell’insieme di queste ricchezze presenti al suo interno. Più in particolare, lo sviluppo è sostenibile quando il consumo di risorse per produrre beni e servizi non riduce il valore complessivo delle ricchezze disponibili.

Questa idea dello sviluppo pone evidentemente alcuni complessi problemi di misura: com’è possibile attribuire un valore economico alle risorse naturali oppure alle relazioni sociali? Inoltre, come valutare la sostituzione di un tipo di capitale con un altro, come potrebbe avvenire trasformando il capitale naturale non rinnovabile in produttivo?

Sui questi temi, del resto, il dibattito scientifico è impegnato da tempo e la letteratura offre molti spunti interessanti.[4] Non è tuttavia questa la sede per entrare sugli aspetti tecnici delle misure, mentre vorremmo piuttosto focalizzare l’attenzione sulle interessanti prospettive che tale approccio può aprire per le politiche di sviluppo locale. Se lo sviluppo è inteso come crescita del valore netto delle ricchezze disponibili su un territorio, il primo passo di una politica di sviluppo locale sostenibile è prendere consapevolezza di tali asset e porsi di fronte al problema della loro tutela e valorizzazione. Questi processi non sono neutrali, in quanto decidere a quali ricchezze attribuire più valore è anche una scelta che matura nella comunità locale stessa, e che può dunque aprire sia conflitti interni fra i diversi attori, sia – data l’interdipendenza a scala più vasta di alcune risorse – anche con altre comunità. Inoltre, gli asset o beni di capitale presenti su un territorio hanno natura economica diversa: alcuni sono privati, come gran parte del patrimonio edilizio, gli impianti o le macchine delle aziende; altri presentano rilevanti esternalità, come il capitale umano; altri ancora appartengono alla categoria dei beni pubblici o delle risorse comuni, come gran parte del capitale naturale. Non solo la valutazione economica di questi asset è dunque particolarmente complessa, ma anche la loro governance richiede strategie differenziate.

Tuttavia, l’aspetto più importante, è che il valore degli asset dipende, alla fine, dalle capacità degli attori di impiegarli in modo produttivo e sostenibile. Avere a disposizione ricche risorse d’acqua serve a poco se poi non si è in grado di organizzare i loro impieghi produttivi – civili, agricoli, energetici, paesaggistici – attraverso adeguate regole, infrastrutture e tecnologie. Lo stesso valore del capitale fisico – che siano edifici, macchine o una rete ferroviaria – dipende, alla fine, dalle capacità imprenditoriale, dei lavoratori e delle istituzioni di farlo funzionare in modo produttivo. Queste capacità innescano un circolo virtuoso nelle misura in cui la società si apre, diventa più complessa e impara a costruire “strutture narrative” che guidano il comportamento degli agenti territoriali verso livelli di produttività e di efficienza superiori.

Ancora più evidente questo approccio al valore del territorio si può vedere nel patrimonio storico e culturale, nelle tradizioni produttive e, soprattutto, nelle capacità delle persone e nelle istituzioni in cui queste si formano, come le scuole e le altre istituzioni finalizzate a produrre e conservare le “strutture narrative” condivise: si tratta di beni comuni che possono diventare elementi fondamentali per progetti di sviluppo locale. Ciò implica anche il superamento di una rigida divisione fra pubblico e privato. E’ infatti difficile immaginare che un progetto di sviluppo possa essere efficace senza la capacità di innovazione e di investimento produttivo delle imprese e dei soggetti privati di un territorio. D’altro canto, se gli investimenti sono impegnativi e rischiosi, come fatalmente sono quelli più innovativi, è necessario un quadro di regole stabili e un insieme di azioni coordinate di lungo periodo che solo le istituzioni pubbliche possono garantire.

Ancora una volta, dunque, il tema rinvia alla qualità delle istituzioni di incentivare comportamenti virtuosi nella comunità locale. Una nuova economia dei territori produttivi non può che partire da questa base.

 

4. Istituzioni, conoscenza, società locale nell’esperienza dei distretti

Sintetizzando quanto detto sin qui, possiamo affermare che la possibilità di utilizzare il territorio come piattaforma per l’innovazione, nella fase economica descritta in precedenza, comporta innovazioni sostanziali nell’assetto delle istituzioni locali e nelle strutture collettive che guidano l’investimento.

La rottura delle barriere nazionali offre infatti maggiori opportunità di sviluppo ai singoli territori, ma richiede ai medesimi una profonda revisione degli asset che nella fase del capitalismo nazionale assicuravano la coesione, l’autonomia e la forza della società locale. Nel capitalismo globale, le conoscenze tecniche e commerciali, sono sempre più generate all’interno di reti aperte che travalicano i confini nazionali e regionali, rompendo schemi e gerarchie consolidate da anni. Nel capitalismo nazionale non era così. Molte conoscenze chiave erano prodotte e codificate all’interno di territori delimitati, e mantenevano a lungo un ruolo guida nell’economia nazionale per molti anni. Oggi le conoscenze importanti sono prodotte e codificate in “territori cognitivi” che non coincidono necessariamente con uno specifico spazio geografico e, grazie all’ICT, viaggiano alla velocità della luce attorno al mondo. Le conoscenze tecniche e commerciali sono prodotte da reti open source e network di competenze che travalicano i limiti delle aggregazioni geografiche e delle reti fisiche territoriali. Precipitano e vengono arricchite in alcuni territori, se questi ultimi riescono a dotarsi di adeguati “sistemi di attrazione e interazione”.

Il senso di appartenenza ad una comunità tecnica e professionale non si forma più soltanto all’interno di ambiti territoriali ristretti, ma in reti aperte alla contaminazione globale. I flussi di capitale, di talento e di informazione produttiva irrompono sul territorio, senza preavviso, senza rispettare regole, passaporti, orari ed etichette sedimentate dalla storia.

La contiguità fisica, esistenziale, continua ad essere un fattore importante. Gli agenti che appartengono ad una medesima “coalizione produttiva” hanno ancora bisogno di home base territoriali (Porter, 1991) per realizzare nel concreto il proprio progetto di innovazione. Il territorio continua a svolgere la sua funzione di “integratore versatile”. Ma cambia ruolo: da sezione periferica (specializzata) di un sistema centralizzato (master/slave), diventa componente attiva (nodo) di un sistema distribuito (rete), mutevole nel tempo e nello spazio.

Cosa determina l’identità di un territorio in questo nuovo contesto? Come cambiano le regole dell’azione collettiva? Quali “strutture” guidano i processi di innovazione e investimento?

Per rispondere a queste domande è opportuno ritornare ancora un volta sulla storia, più volte raccontata, dei distretti e dei territori produttivi italiani nell’epoca della loro emersione. Dalla re-interpretazione di quella storia possiamo ricavare alcune indicazioni utili alla lettura del futuro.

 

Nei distretti italiani degli anni ’70 le “strutture narrative” prodotte all’interno delle grandi imprese incubatrici hanno svolto una funzione guida (Tattara, 2006). Nelle grandi imprese gli uomini dei distretti hanno imparato a condividere molto più di una semplice esperienza professionale. Hanno condiviso uno spirito e una “cittadinanza” di squadra, che si sono radicati in un territorio (home base) e sono diventati cultura associativa, resistente molti anni dopo la scomparsa delle imprese incubatrici. Proprio queste ultime e la loro organizzazione fordista hanno disegnato il sistema istituzionale necessario a far crescere i distretti. Hanno aperto i distretti al mondo, diffondendo “modelli di comportamento e architetture tecniche” che la società locale tradizionale non avrebbe potuto produrre naturalmente al suo interno. Su questa base migliaia di imprenditori hanno trovato il modo di partecipare attivamente a importanti esperienze collettive di innovazione e di sviluppo. Hanno creato beni collettivi per la competitività, all’altezza delle sfide e delle esigenze di un mercato sempre più internazionale, senza eccessivo sforzo, in modo quasi inconsapevole.

Nell’epoca d’oro del capitalismo nazionale degli anni ’70 e ’80, le società locali hanno inventato gli strumenti di interpretazione del mondo, che hanno permesso loro, per un periodo molto lungo, di superare i vincoli della tradizione rurale e l’incertezza ontologica connessa con l’assunzione di un ruolo leader, sul piano nazionale e poi globale, delle filiere produttive (Lane e al, 2009).

Le società locali, fecondate dalle “strutture” fordiste hanno offerto agli agenti territoriali le basi di un’azione collettiva coerente, pur in presenza di conflitti aperti tra diverse componenti sociali e anche tra individui, in contesti istituzionali nei quali l’appartenenza al medesimo distretto o industria è stata spesso misconosciuta dagli stessi protagonisti principali.

Porter, quando ha proposto al mondo la sua teoria del vantaggio competitivo, ha identificato non a caso nelle società locali e nei cluster italiani un esempio paradigmatico del nuovo modo di “fare territorio” nell’economia globale.

Ispirandosi alle dinamiche tipiche di un territorio pedemontano come Montebelluna – che già a metà degli anni ’80 era la capitale mondiale della calzatura sportiva – Porter ha sviluppato una nuova idea di competitività. Mentre cercava una teoria della competizione tra “nazioni”, Porter è arrivato a scoprire che le basi del vantaggio competitivo sono in realtà collocate a livello “regionale”, laddove nascono cluster di industrie e istituzioni che sanno investire in modo intelligente sui principali asset di sviluppo:

–       istituzioni economiche e sistemi di mercato vitali, senza rendite e senza barriere, che favoriscano la crescita di nuove imprese e stimolano l’innovazione;

–       passioni nazionali che consentono di agganciare fasce di domanda sofisticate e di anticipare gusti e tendenze globali;

–       costanza nell’investimento produttivo, lungo filiere collegate tra loro e settori di supporto, che offrano una struttura industriale ampia e integrata (a full set industrial structure);

–       rinnovamento continuo dei fattori locali: capitale umano in linea con la domanda delle imprese, capitale intellettuale capace di presidiare la frontiera dell’innovazione, capitale finanziario coerente con i profili di rischio degli operatori principali, capitale fisico e infrastrutturale adatto a sostenere la posizione internazionale delle imprese, capitale sociale e istituzionale per rispondere alle esigenze di regolazione della comunità locale.

 

A differenza dei tradizionali modelli di vantaggio comparato, Porter ha introdotto il principio che la dotazione dei fattori non è un semplice dato del territorio, ma dipende dalla capacità di rinnovare le competenze tecniche e di investire con continuità sull’innovazione. Secondo Porter, questo rinnovamento continuo è determinato in ultima istanza da un tessuto sociale capace di mantenere una elevata “rivalità tra le imprese” e di aprire il territorio al mondo. Propone ante litteram molti degli elementi descritti molto più tardi da Richard Florida (2003) e poi da Enrico Moretti (2012) nelle loro geografie dei territori creativi e dei distretti high-tech degli Stati Uniti.

Come abbiamo già detto, all’epoca in cui Porter scriveva The competitive Advantage of Nations l’Italia era ancora considerata un esempio originale di territorio dinamico grazie alla presenza di distretti produttivi. Nel suo schema, il distretto dello Sport System di Montebelluna assumeva un ruolo emblematico. Proprio nel cluster di Montebelluna, a suo parere, erano presenti tutte le condizioni di vantaggio descritte dallo schema teorico, con risultati visibili a occhio nudo. Non solo una quota di mercato internazionale molto rilevante, ma anche una capacità indiscussa di attirare capitali esterni (tutte le principali imprese dello Sport System erano presenti nella zona) e una fortissima vitalità innovativa, in termini di nuovi prodotti e sistemi di mercato tra loro correlati.

In quel caso il territorio dimostrava di essere produttivo, capitale indiscussa di un cluster di attività e di business in forte espansione in tutto il mondo.

Non l’Italia come nazione, ma una parte del suo territorio era diventato nodo di una rete globale, anzi capitale mondiale di un sistema di mercato emergente, quello dell’abbigliamento sportivo. Tutto questo grazie ad un mix di investimenti sugli asset locali e sui collegamenti con la filiera internazionale emergente dalla West Coast americana ai poli produttivi dell’estremo oriente, Taiwan in particolare.

Nello stesso periodo Becattini, Bagnasco, Brusco e altri studiosi italiani rilanciavano la teoria dei distretti sviluppata da Alfred Marshall, proprio per spiegare la sorprendente e anomala salita di una parte dell’Italia (la Terza Italia) nel club dei paesi più avanzati.

Tutte queste teorie sono legate all’idea che esistono forze “implicite” sul piano locale che riescono ad intercettare flussi globali, a metabolizzarli, ricavandone il massimo risultato possibile in termini di sviluppo nel lungo termine. Tecnologie sociali come il cluster e i sistemi di mercato, non dirette attraverso l’azione consapevole della gerarchia o della politica, si sono mostrate capaci di inserire competenze locali all’interno di un sistema di divisione internazionale del lavoro. Istituzioni territoriali come le società di servizio dei distretti sono riuscite a promuovere il riconoscimento delle competenze italiane nelle filiere globali.

 

5. Verso nuove “strutture narrative” nei territori produttivi

Oggi, tuttavia, il quadro descritto da Porter, Becattini e altri è in fase di forte cambiamento. Per capire cosa sta avvenendo abbiamo bisogno di un nuovo schema interpretativo, che ci consenta di capire ruolo e funzioni dei nuovi “territori produttivi”. Se il locale non è più un luogo di produzione auto-sufficiente di narrative globali, se il territorio non è più detentore privilegiato di un’atmosfera e di un quadro tecnologico esclusivo, se non basta più la rivalità tra le imprese o la loro connessione debole con le filiere globali, per mantenere il vantaggio competitivo, dobbiamo modificare anche il nostro approccio scientifico e politico.

Oggi i nostri territori sono più aperti che in passato, attraversati da flussi di conoscenza e flussi di investimento che non nascono più solo dalle grandi imprese integrate verticalmente, con un indotto locale, guidate da una sorta di struttura sociale e cognitiva autoctona, “interna”, ma anche dai social network e da altre istituzioni e strutture sociali esterne alle imprese, che non hanno più il proprio baricentro fisico e cognitivo in un solo territorio e sono difficilmente racchiudibili nell’ambito di una gerarchia, di uno Stato Nazione, ancor meno di una sola area regionale.

David Lane (Lane et al, 2009) chiama queste strutture “scaffold di nuovi sistemi sociali e di mercato”, impalcature di una “società civile globale” che non si costruisce più sulla base di “strutture narrative” di una comunità territoriale, ma sulla base di esperienze, “storie”, che nascono e si sviluppano su scala globale. Alcuni territori e distretti possono continuare a essere “capitale riconosciuta” di asset competitivi e conoscenze, ma lo fanno solo grazie al rapporto di scaffold globalizzate. Il “miracolo” di Montebelluna può rinnovarsi solo se il territorio aggancia queste nuove strutture della società globale, che non sono più collocate all’interno di uno spazio geografico e amministrativo. Non può più procedere come una volta, perché il cluster dei prodotti tecnici per lo sport riesce ad esprimere imprenditori di successo e fattori di catalizzazione soltanto fuori dallo schema territoriale del passato.

Se innovazioni rilevanti e “quadri tecnologici” avanzati emergono oggi da sistemi territoriali più complessi, che ospitano “cittadini produttivi” collegati a “strutture narrative” che non hanno più soltanto origine locale, i territori produttivi di oggi sono quelli che promuovono una reinterpretazione locale di strutture narrative globali e partecipano alla produzione di scaffold di dimensione sovranazionale e sovraregionale.

Se tutto questo è vero ci troviamo nel mezzo di una fase di transizione che, se non affrontata adeguatamente, può portare i nostri territori a non investire abbastanza sugli asset indispensabili per competere oggi, che non sono più soltanto locali. Nel contesto divaricato dell’economia globale, le nostre comunità e le nostre istituzioni devono imparare a investire pesantemente su “beni pubblici globali per la competitività” che sono altrettanto indispensabili dei “beni pubblici locali” di cui hanno scritto Crouch, Le Galés, Trigilia e Voelzkow (Crouch et al, 2004).

I “territori che riescono a rinnovarsi” lo fanno grazie all’investimento su funzioni moderne in linea con la gestione della nuova antinomia: sapere globale/nodi locali. Milano, ad esempio, continua ad essere capitale mondiale della moda così come Trento è diventata, da qualche anno, capitale italiana dell’edilizia sostenibile, o Torino ha guadagnato il rango di capitale del gusto. Questo accade grazie alla capacità di questi territori di partecipare alla costruzione e alla gestione di scaffold globali: il circuito culturale delle griffe e le settimane della moda per Milano, il Green Building Council per Trento, il movimento Slow Food per Torino.

Altri territori perdono invece di coesione, proprio perché non riescono a fare sintesi dei progetti emergenti e a collegarli a scaffold globali. La rappresentanza politica e istituzionale (anche associativa) resta qui indietro e non interpreta il cambiamento in modo efficace. Ad esempio, Vicenza continua ad essere capitale dell’oreficeria, ma il grosso del business si è spostato altrove, verso il lusso democratico di Morellato e altre piccole multinazionali della comunicazione, con marchi “culturali” come Sector No Limits e simili. La Fiera di Vicenza, la Scuola d’Arte e Mestieri, le associazioni locali delle imprese risultano fuori scala e, di conseguenza, contano sempre meno.

Il Cadore è ancora capitale italiana della produzione di montature di occhiali, grazie alla rivoluzione importata da Luxottica, ma non riesce più a trasformare il proprio territorio in un’area metropolitana su misura, capace di attirare cervelli e designer, almeno per un parte dell’anno, a vivere, camminare, sciare nelle Dolomiti come alternativa alla quinta strada di New York oppure alle spiagge di Sausalito o Honolulu.

Montebelluna è capitale della calzatura e dell’abbigliamento tecnico grazie alla proiezione globale di Geox, Alpinestar e Dainese. Ma ha perso il ruolo di catalizzatore delle competenze tecniche di avanguardia nel settore della bio-ingegneria, dell’interazione uomo-macchina e dei nuovi materiali.

Le Terme Euganee, allo stesso modo, non sono più, come negli anni ’70, il centro di benessere più gettonato dai pazienti tedeschi assistiti dal loro welfare. Devono riguadagnare un ruolo produttivo all’interno di nuove scaffold, quelle dello sport e del tempo libero in primo luogo.

Va inoltre ricordato che i nostri territori hanno subito l’impatto negativo di una politica per i distretti produttivi che è stata indirizzata nel senso sbagliato. Verso sussidi e protezione delle imprese più piccole, che non affrontano i problemi e le trasformazioni di cui stiamo discutendo.

Il posizionamento dei “territori moderni” nell’epoca della globalizzazione pone alle istituzioni locali nuovi compiti non solo “assistenziali”. Queste, tuttavia, non hanno strumenti adeguati di intervento, hanno perso la capacità di costruire narrative complesse, quelle che il mondo globale richiede ai suoi protagonisti. Sempre meno i vecchi territori – intesi come società locali chiuse e amministrate da istituzioni burocratiche – riescono a svolgere funzioni moderne di supporto allo sviluppo, perché non riescono a organizzare l’identità locale e gli asset territoriali in funzione delle narrative globali prodotte dalle grandi scaffold.

Ecco perché avvertiamo una tensione crescente tra globale e locale. Ancora mancano agenti sociali capaci di legare il destino del proprio territorio alla emergente società globale e alle nuove istituzioni principe: le scaffold che definiscono nuovi sistemi di senso e di mercato.

In conclusione, il vecchio modello di sviluppo territoriale nato negli anni ’70 è in piena crisi. I territori di cui parliamo oggi non possono esistere staccati dalle coalizioni “produttive” globali, che si contrappongono alle coalizioni “distributive” e “amministrative” del vecchio capitalismo nazionale. Perdono “valore” se non restano collegati con le nuove forme di organizzazione industriale che travalicano non solo i confini nazionali, ma anche le forme organizzative del sapere e dell’innovazione che un tempo si esaurivano all’interno di un luogo fisico o di una comunità tecnica locale.

Possiamo, a questo punto, tornare alle domande iniziali. Cosa determina l’identità e il valore di un territorio in questo momento storico? Se nei distretti italiani degli anni ’70 si sono rivelate trainanti le strutture narrative prodotte all’interno delle grandi imprese incubatrici quali sono le strutture collettive e le reti di relazioni che provocano oggi lo stesso effetto creativo nei nostri territori produttivi?

Per trovare una risposta dobbiamo osservarne alcuni. Quelli che promettono di farcela o rappresentano almeno un tentativo consapevole di uscire dal vecchio schema. Ma dobbiamo farlo da una prospettiva inedita, derivata dall’economia delle istituzioni e dell’innovazione sociale come quella proposta da Lane, Maxfield e altri ricercatori della complessità e delle teorie dell’innovazione (Bijker, 1995; Arthur, 2010). Questi ricercatori, che potremmo raccogliere nella categoria dei “costruttivisti”, immaginano l’economia, il territorio e la stessa tecnologia come costruzioni sociali complesse, guidate da “forze cognitive” che non sono visibili con l’approccio scientifico-quantitativo basato sulle statistiche del territorio. La possibilità di leggere le strutture sociali complesse progettate dall’uomo, come il territorio, dipende dal recupero di un approccio “storico-istituzionale” e di un “paradigma indiziario” (Ginzburg, 1986). Tracce di “costruzione sociale” sono infatti visibili alla luce dell’identità degli agenti, degli artefatti e delle attribuzioni. Queste identità e attribuzioni sono in parte soggettive (e guidano percorsi imprenditoriali di innovazione che dipendono dall’azione dei singoli individui nell’atto creativo della “mutazione”), ma in larga misura sono “oggettive”, perché dipendono da scelte collettive che sopravvivono agli impulsi individuali, ne interpretano l’azione e svolgono quindi un’azione “selettiva”. Costruiscono la società.

Questo filone della ricerca economica e sociale può contribuire oggi alla revisione dei confini dei territori (senza ossessione classificatoria e senza standard) e alla loro ri-progettazione in ragione degli obiettivi di sviluppo degli individui e delle loro società. In questa direzione la ricerca sociale può costruire nuove mappe, utili alla decisione. Ma si tratta di mappe molto diverse da quelle che siamo abituati a utilizzare nelle pratiche amministrative e nelle policy dello sviluppo locale. Si tratta di mappe cognitive che sono in grado di interpretare l’identità mutevole degli agenti e le loro possibili strategie di azione all’interno di strutture sociali complesse.

Studi recenti mostrano che l’aumento della produttività si accompagna ad un aumento della complessità sociale (Read, 2013). In questa direzione possiamo esplorare il futuro dei nostri territori.

 

6. Sistemi di mercato e processi di innovazione sociale

L’idea di osservare le “relazioni generative” che avvengono nello spazio agenti-artefatti è stata sviluppata da Lane e Maxfield in numerosi saggi pubblicati tra il 1996 e il 2009. Questo approccio è comune ad altri analisti dei processi di innovazione sociale, quali Bijker e la sua Social Construction of Technology, oppure Nonaka e Takeuchi e la loro spirale cognitiva.

La scoperta delle narratives, delle scaffold e dell’incertezza ontologica come driver di nuovi “sistemi di mercato” è un passaggio teorico importante nell’analisi dei territori e dei distretti. Anche a Nordest, ha influenzato, negli ultimi 15 anni una serie di sperimentazioni pratiche.[5]

Questi percorsi di ricerca operativa si mescolano peraltro con l’elaborazione portata avanti da Rullani a proposito di economia della conoscenza (Rullani, 2004). Spostano infatti il centro dell’attenzione dalle economie di scala all’economia della conoscenza, dalle reti di produzione locale alle reti di trasferimento tecnologico, dalla teoria dell’organizzazione industriale ai social networks e alle strutture narrative che mobilitano la società in processi innovativi.

Secondo questo approccio il territorio è “costruito” da processi di innovazione sociale che sono governati dalle narrative, scaffold e ICT. E, in base a tale approccio, non solo è possibile ricostruire nuove mappe del Nordest, ma è stato anche possibile sperimentare alcune innovative strategie di accesso alla black box dell’innovazione. I risultati sono ancora provvisori e incompleti, ma interessanti. Vediamone intanto due.

 

Legge veneta sui distretti (L.R. 8/2003).

Una prima strategia di accesso è stata sperimentata dalla legge regionale del Veneto per i distretti produttivi. Nella sua prima versione essa definiva “distretto” non un’area geografica circoscritta, bensì una coalizione istituzionale che si dimostrasse capace di condividere un progetto di sviluppo industriale. In altri termini, il distretto diventa un aggregato di imprese e soggetti collettivi impegnati nell’attuazione di un programma pluriennale di investimento. Il “territorio” assume una dimensione oggettivamente nuova, diventando uno spazio di interazioni sociali, tecniche ed economiche. Lo “spazio del distretto”, nello spirito della legge, viene riconosciuto da una popolazione di imprese e una comunità di persone come il “luogo migliore” all’interno del quale vivere e perseguire obiettivi di produttività, di sviluppo personale, di competitività. Nulla di equivalente al settore statistico o ai sistemi locali del lavoro e agli enti locali di tipo tradizionale. Il “distretto produttivo” della Regione Veneto è (doveva essere) uno “spazio costituente” a tutti gli effetti, che si affianca o sostituisce (in prospettiva) gli spazi amministrativi già costituiti. E’ dotato di regole interne “accettate e costruite” da coalizioni emergenti di cittadini che chiedono un “riconoscimento” alla Regione e alle altre istituzioni esistenti (Province, Comuni e anche associazioni di categoria e di rappresentanza collettiva). E ha un interesse, in quanto favorisce l’innovazione sociale, un nuovo tipo di rapporti tra le persone e gli artefatti, in linea con le esigenze di modernizzazione poste dalla globalizzazione dei mercati e dalla divisione internazionale del lavoro. Il “distretto” è uno spazio nel quale l’identità degli agenti e le attribuzioni degli artefatti mutano grazie al controllo sociale.

A distanza di tempo questa strategia di accesso alla scatola nera dell’innovazione si è rivelata poco efficace. Lo spirito “costituente” dei “sottoscrittori del patto di distretto” è stato debole, contraddittorio, fortemente intriso di intenzioni opportunistiche e ha ceduto rapidamente il passo ad uno spirito “lobbistico”: quello che Olson definisce tipico delle “coalizioni distributive”. La società civile, invece di farsi protagonista della costruzione di istituzioni inclusive all’interno del territorio regionale, ha rimesso rapidamente il mandato nelle mani degli amministratori tradizionali e dei rappresentanti delle associazioni sindacali di categoria. Questi ultimi, d’altra parte, hanno opposto una prevedibile reazione negativa all’emergere di “territori e spazi” concorrenti. Hanno inoltre rinviato qualsiasi discussione sul ruolo delle nuove scaffold.

 

Il distretto tecnologico del Trentino.

Una seconda strategia è stata sperimentata in Trentino, con la costituzione di un distretto tecnologico dell’energia e dell’ambiente. In questo caso l’aggregazione di enti locali e imprese (oltre 200) ha assunto una veste giuridica permanente e ha esplicitamente assunto la responsabilità di investire risorse private e amministrare fondi pubblici nella creazione di un nuovo territorio produttivo, di un nuovo sistema di mercato: quello dell’edilizia sostenibile. In questo caso il patto programmatico degli agenti coinvolti è stato riconosciuto, sia pure tra mille incertezze e difficoltà, dalle istituzioni territoriali legittime. La società civile ha quindi assunto un ruolo “costituente”, incisivo e accettato dalle istituzioni locali già esistenti, e ha potuto raggiungere obiettivi in linea con l’idea di territorio come base di aggregazioni sociali focalizzate sull’innovazione e sulla ricerca di una nuova identità. Ha portato ad un oggettivo arricchimento degli asset territoriali importanti per competere nel settore dell’edilizia sostenibile. Il territorio ha inoltre intercettato una scaffold globale di grande impatto, quale il Green Building Council World, e ne ha tratto importanti benefici.

 

Prevale, all’interno di questi casi, una dimensione del territorio e della cittadinanza che privilegia l’identità “tecnica” o produttiva rispetto a quella storica o politica dei protagonisti. Questo è senza dubbio un passo avanti, ma non è ancora sufficiente.

 

 

7. Territori produttivi emergenti: quattro casi nel Nord Est

La dinamica evidenziata nel paragrafo precedente può essere raccontata anche attraverso altri casi emblematici per il Nordest. In tutti questi casi la tensione tra la dimensione produttiva degli agenti sociali e la dimensione distributiva delle istituzioni rappresentative è evidente. E l’arretratezza delle istituzioni locali e territoriali appare un nodo critico dei processi di innovazione possibili. Emerge invece il ruolo cruciale delle grandi imprese o delle istituzioni locali che, oggigiorno, costruiscono la funzione di “driver territoriale”, nodo ponte con strutture scaffold capaci di produrre beni pubblici globali per la competizione.

I casi analizzati sono quattro:

–       il già citato caso del distretto dell’edilizia sostenibile in Trentino;

–       il caso del distretto della lavorazione della pelle nella Valle del Chiampo e nell’Ovest Vicentino;

–       il caso della Oil Free Zone del Primiero e di un nuovo potenziale distretto turistico montano;

–       il caso di due imprese-rete alla ricerca di un nuovo “territorio produttivo” nello Sport System.

 

Un sistema locale dell’innovazione: Habitech

Nel caso del distretto tecnologico trentino dell’Energia e dell’Ambiente, il ruolo “costituente” della comunità dei tecnici, degli imprenditori e dei funzionari pubblici collegati alla scaffold Green Building Council, è molto evidente. Sin dal principio la Provincia Autonoma di Trento ha ritenuto di dover delegare ai “cittadini produttivi” e in particolare ad una “task force” di agenti di sviluppo locale, il compito di delineare il futuro assetto del territorio, come capitale dell’edilizia sostenibile in Italia.[6]

In questo caso il driver del programma di sviluppo locale non è stata una grande impresa, ma una istituzione collettiva denominata Habitech, cui si sono aggiunte, nel tempo, altre istituzioni simili o collegate (GBC Italia, Nuova Manifattura, ARCA, ecc…) con l’obiettivo di investire sulle conoscenze critiche per il nuovo sistema di mercato, sulla governance distrettuale e sulla reputazione green del territorio trentino. Il sistema locale dell’innovazione è stato attivato da un’intesa programmatica delle istituzioni tradizionali, ma si è poi sviluppato grazie alla nascita di nuove strutture organizzative che hanno facilitato l’aggancio di importanti scaffold internazionali con i centri di eccellenza universitaria e della ricerca presenti sul territorio (UNITN, FBK, Mach e IVALSA).

Da questo punto di vista rappresenta un esempio positivo di “costituzione di un nuovo territorio produttivo”. Anche se le istituzioni tradizionali non hanno fatto proprio in modo esclusivo gli obiettivi della comunità emergente, l’hanno incoraggiata e hanno recepito la sua presenza come un arricchimento di un territorio già orientato ai temi della sostenibilità. Trento non è formalmente considerata, dall’interno, capitale nazionale dell’edilizia sostenibile, ma è informalmente considerata tale dall’esterno.

Le strutture della nuova comunità emergente hanno quindi influenzato l’identità territoriale, hanno influito in modo significativo al mutamento dell’identità degli agenti e sulla stessa natura degli artefatti. Questo pone le premesse per una maggiore produttività del sistema locale, per una maggiore competitività del territorio, oltre che per l’avvio di una cascata di innovazioni che può ancora trasformare quel territorio nel tempo.

 

Un distretto industriale maturo alla ricerca delle nuove frontiere tecnologiche della sostenibilità

Il caso di Arzignano e dell’Ovest Vicentino presenta invece una situazione meno dinamica, analoga a quella di altri distretti manifatturieri tradizionali del Nordest, destinati al declino, resistenti all’approccio costruttivista emergente, chiusi in sé stessi e legati ad un quadro tecnologico difficilmente sostenibile. All’interno del territorio dell’Ovest Vicentino non esiste nulla di paragonabile a quanto descritto nel precedente caso Trentino. Le istituzioni locali sono storicamente deboli, incapaci di esprimere indirizzi di investimento sui driver dell’innovazione. In passato hanno tentato di svolgere un ruolo guida sui temi dell’inquinamento: la Provincia, soprattutto, con il progetto Giada e il Comune di Arzignano con il consorzio obbligatorio per la raccolta degli scarti organici. Ma negli ultimi anni sono le imprese private ad assumere un ruolo guida, ad esempio investendo direttamente su SICIT (azienda privata che ha ereditato il ruolo di consorzio obbligatorio per la raccolta e trasformazione degli scarti organici).

Oggi, nonostante una grande varietà di istituzioni produttive e di associazioni, il territorio è sprovvisto di un’adeguata rappresentanza produttiva. E’ intrappolato da logiche distributive. L’identità del sistema locale e degli operatori resta ancorata a caratteri tradizionali. Il processo tecnico, nonostante numerosi interventi incrementali, resta orientato al “quadro tecnologico del cromo” e non è percorso da segnali di innovazione significativa.

A dire il vero, una parte del sistema è sottoposta a tensioni innovative da qualche tempo e si può notare l’emergere di una componente green tra i produttori di pelle. Alcune imprese, anche grandi, hanno iniziato a produrre wet white al posto del tradizionale wet blue e ad adottare sistemi di certificazione ambientale come LWG e EPD. Non esiste ancora un protocollo o un dispositivo di mobilitazione sociale paragonabile a quello trentino del 2005, ma l’investimento diretto a costruire un nuovo sistema di mercato sta cominciando. EPD (Environmental Product Declaration) è un sistema promosso direttamente dalla Provincia di Vicenza, ma non è supportato da investimenti analoghi a quelli assicurati dalla Provincia Autonoma di Bolzano a Casaclima o dalla Provincia Autonoma di Trento a LEED.

La crisi del 2008 e l’irrompere del paradigma della sostenibilità stanno condizionando le forze produttive a una drastica revisione del modello tradizionale. Con un ritardo di cinque anni, rispetto alla svolta trentina, anche nell’Ovest Vicentino si sta creando una coalizione innovativa. Ma questa è per ora confinata all’interno del nucleo centrale degli imprenditori e non coinvolge le associazioni e le istituzioni locali. Manca il supporto di una scaffold globale, anche se LWG e le istituzioni europee del controllo ambientale offrono un contributo importante. La costruzione di un Protocollo di intesa e il reperimento dei fondi necessari a far decollare un nuovo distretto è ancora in corso.

In conclusione, nel distretto della Valle del Chiamo stenta ad emergere un nuovo territorio produttivo proprio perché non esistono ancora istituzioni rappresentative della “pelle green” o di un potenziale nuovo cluster delle bio-tecnologie applicate alla lavorazione della pelle e di altri prodotti “naturali” per il Made in Italy. Nonostante la progressiva convergenza verso un sistema di rappresentanza unitaria delle maggiori imprese, non esiste ancora una intesa con le istituzioni tradizionali locali, alcune delle quali sono in conflitto con ogni tipo di innovazione in campo energetico e ambientale. Mancano, in particolare, fattori di contesto importanti, quale potrebbe essere il contributo dell’università e dei centri di ricerca. Ciò dimostra l’impossibilità di creare un nuovo territorio produttivo senza riuscire a coinvolgere attivamente il sistema educativo e quello della ricerca scientifica e tecnologica.

 

Una comunità sostenibile post-industriale: Oil Free Zone in Primiero

Il Primiero è, a differenza dei precedenti, un esempio di innovazione moderna all’interno di un ambiente non urbano. Nonostante il tentativo di portare la città in montagna, attraverso la creazione di San Martino di Castrozza, secondo lo schema anni ’70 del Sestriere, di Cervinia e di Cortina, la valle del Primiero ha mantenuto il profilo di un luogo montano adatto al turismo sostenibile. Grazie alla presenza sul territorio di un catalizzatore di innovazione, collocato nella filiera delle public utility (ACSM – Azienda Consorziale Servizi Municipali), il Primiero ha attivato un dispositivo di ricerca sulle infrastrutture energetiche che sta trasformando l’identità del territorio in direzione di una “comunità sostenibile” basata sul concetto di Oil Free Zone. La prospettiva è quella di offrire servizi turistici di alta qualità, grazie alla costruzione di un ambiente unico: moderno dal punto di vista dei servizi (impianti di risalita, wellness, impianti sportivi e culturali…), ma ad impatto zero dal punto di vista ambientale: silenzio, poco traffico, qualità del paesaggio, dei consumi energetici, idrici, della dieta, dell’ospitalità, ecc.

In questa direzione ACSM ha assunto il ruolo di catalizzatore dell’innovazione e di istituzione promotrice degli investimenti chiave. Essendo società partecipata dai comuni e con una dote importante di risorse energetiche (possiede centrali che producono e vendono energia elettrica per tutto il Nordest) ACSM ha potuto pianificare non solo lo sviluppo di una rete di teleriscaldamento finalizzata a utilizzare le risorse forestali e le biomasse disponibili sul territorio per la climatizzazione a impatto zero, ma anche lo sviluppo di soluzioni di mobilità sostenibile. Nel 2005 già esisteva un progetto di ricerca per lo sviluppo della filiera dell’idrogeno, al servizio della flotta di mezzi pubblici in vallata. Negli anni successivi la scelta iniziale è stata parzialmente rivista, ma non è cessata la ricerca di soluzioni alternative al traffico auto e all’importazione di combustibili fossili dall’esterno. L’azione di ACSM è stata fatta propria dagli enti locali e dalla Provincia Autonoma di Trento, ma anche dalle associazioni di categoria delle imprese turistiche della zona, che investono sulla prospettiva della Oil Free Zone o almeno della Comunità Sostenibile. Questo ha comportato un progressivo, ma lento, cambiamento di identità degli operatori locali legati alla ospitalità e alla mobilità. Anche le attribuzioni degli artefatti turistici e residenziali (seconde case e alberghi) si sono modificate.

Ancora non è possibile dichiarare la nascita di un nuovo territorio produttivo, riconosciuto come luogo di innovazione turistica in Italia e in Europa. A questo avrebbero dovuto concorrere strutture scaffold internazionali – come la rete delle Transition Town ad esempio, o dei Sustainable Sites – che non sono state agganciate dalle istituzioni locali. Il processo di investimento sugli asset territoriali critici è molto avanzato (rete del teleriscaldamento e dei servizi ambientali, certificazione energetica degli edifici e sviluppo di servizi in energy saving), ma non ha ancora raggiunto la dimensione e la massa critica sufficiente per promuovere una cascata di innovazioni chiaramente percepibile. Il Primiero esprime oggi leadership di primo piano (in Trentino e anche in Italia) a proposito di sostenibilità e turismo sostenibile, ma non ha assunto il ruolo di driver dell’innovazione nel sistema di mercato delle green communities, delle tecnologie e dei servizi collegati, della nuova economia della montagna.

 

Imprese-rete alla ricerca di un nuovo territorio produttivo: Geox e Dainese

Una situazione affatto diversa dalle precedenti è quella che interessa alcuni sistemi di mercato all’interno dei quali si è già consumato il passaggio da una logica di “distretto” a quella di impresa globale o “impresa rete”. In questi sistemi alcune aziende leader, con una quota di fatturato crescente grazie all’uscita dai confini del territorio originario e dal quadro tecnologico prevalente, hanno deciso di abbandonare il “sentiero del distretto” per costruire una propria autonoma “identità di rete”. Queste aziende puntano a costruire un sistema di mercato “proprietario”, sostenuto dai riferimenti cognitivi e di comunicazione offerti dal “brand” aziendale.

Ad uno sguardo superficiale si tratta di operazioni che sembrano la ri-edizione recente di un modello di successo assai datato: Benetton, Stefanel, Diesel, Replay, e altre (Calabrò, 2009). Queste imprese hanno una relazione sempre più debole con il territorio, anche se rappresentano un agente locale rilevante. Si comportano “come se” non avessero bisogno di asset territoriali qualificati o di istituzioni rappresentative, poiché sono in grado di trovare al proprio interno o all’interno della rete di relazioni “proprietarie” le risorse necessarie a produrre innovazione, identità degli agenti e nuove attribuzioni per gli artefatti.

Geox, ad esempio, è passata da poche centinaia di dipendenti a Montebelluna ad una rete globale che comprende ormai quasi 35.000 dipendenti, fornitori e collaboratori. E’ all’interno di questa rete estesa nei cinque continenti che i dirigenti del sistema cercano gli elementi per progettare il futuro del business: quello del fashion tecnologico. Mario Moretti Polegato ha verificato in più occasioni lo stacco netto che esiste tra la piattaforma cognitiva del territorio di partenza e il nuovo sistema di mercato. L’idea di concentrare l’attenzione su alcune attribuzioni innovative del prodotto, come la traspirabilità delle forme e dei materiali, non ha trovato supporto sufficiente in una piattaforma che pure si è sviluppata proprio a ridosso delle prestazioni “bio-meccaniche” dei prodotti, del rapporto evolutivo che esiste tra abbigliamento, tecnologie dello sport e salute fisica dell’atleta o del praticante. La soluzione di una serie di problemi connessi all’idea forza del nuovo business, paradossalmente, Geox l’ha trovata in giro per il mondo, alla NASA piuttosto che al MIT.

Dainese, allo stesso modo, nella ricerca sulle protezioni e i sistemi di sicurezza nello sport motociclistico non ha trovato a Montebelluna o nello spazio pedemontano tra Vicenza e Treviso quanto gli serviva per mettere a punto una linea di prodotti riconosciuta come innovativa dagli appassionati delle moto di tutto il mondo, in larga misura attratti da modelli e soluzioni messe a punto negli USA, in Giappone, a Taiwan. Ha trovato per caso, all’Università di Padova, la soluzione più interessante per l’airbag da moto. Ma ci è arrivato grazie alla rete globale costruita in tutto il mondo.

 

8. Conclusioni

Quale rapporto esiste oggi, al di là di quello personale, tra i cittadini produttivi inclusi nelle imprese-rete di Geox e Dainese e il territorio nel quale ha preso origine e ancora insiste parte del ciclo produttivo? La stessa domanda si potrebbe estendere ad altre imprese leader come Diesel di Renzo Rosso, i giovani talenti di Fabrica per la rete Benetton, o i designers-comunicatori di Luxottica. Su quali asset e quali scaffold il territorio potrà contare in futuro per continuare ad essere attrattivo di talenti creativi e investimenti industriali? In che modo le istituzioni del territorio dovranno modificarsi per favorire l’inclusione di nuovi attori, nuove idee e nuovi progetti imprenditoriali?

Provare a dare una risposta a queste domande non è solo un esercizio di analisi economica e sociale, ma la base per ritrovare un cammino sostenibile di sviluppo in aree dove la crescita estensiva e dissipativa ha da tempo esaurito la sua spinta.

In questo articolo abbiamo cercato di indicare un possibile percorso concettuale e metodologico per ridare senso a nuovi processi di sviluppo locale. E’ stato necessario partire dalle cause della crisi per prendere atto che lo scenario nel quale l’economia italiana si era affermata come “sesta potenza industriale” al mondo è profondamente cambiato. In particolare, le condizioni che hanno favorito l’affermazione dei distretti e delle piccole e medie imprese nei mercati globali – quadri tecnologici stabili, limitata divisione spaziale del lavoro, bassi costi energetici e ambientali, regime monetario e macro-economico flessibile, una forte etica del lavoro e della politica all’interno di una società in formazione – non sono più ripetibili negli stessi termini del passato, ed è perciò necessario ripensare le relazioni fra identità locali e sviluppo globale come presupposto di nuovi sistemi di innovazione. In questa prospettiva diventa fondamentale la capacità delle istituzioni di aprire il gioco produttivo a nuovi attori, favorendo l’inclusione di idee, tecnologie e narrazioni capaci di contaminare le tradizioni locali. Anche per questo è necessario riflettere sugli strumenti di misura dello sviluppo. Non solo per mettere in luce le profonde carenze degli indicatori tradizionali come il Pil, ma per provare a modificare il modo con cui viene rappresentato lo sviluppo stesso e, di conseguenza, rendere possibile individuare le leve sulle quali agire per una crescita sostenibile. Da questa analisi è emerso come l’approccio asset based allo sviluppo locale – in cui lo sviluppo è misurato dalla variazione degli stock delle ricchezze economiche, naturali, umane e sociali di un territorio – possa fornire elementi utili per rilanciare e sostenere lo sviluppo nel lungo periodo. Tuttavia, in un mondo aperto ai flussi di conoscenze e risorse globali, nessun territorio è auto-sufficiente. Nessun asset locale, per quanto pregiato, può da solo funzionare da fattore di spinta dello sviluppo se non riesce ad entrare in sintonia con linguaggi, tecnologie e mercati globali. Gli asset locali – economici, cognitivi, istituzionali – hanno dunque bisogno di strutture di collegamento con quanto si sta sviluppando nelle frontiere dell’innovazione. Come abbiamo infatti visto in alcuni casi di successo nel Nordest, proprio la capacità di creare queste strutture o scaffold ha costituito un fattore critico nella formazione dei nuovi territori produttivi. Sarà dunque a partire da questi elementi – asset locali, scaffold globali – e dalle capacità di combinarli in modo produttivo, che potranno essere utilmente ripensate le stesse politiche per lo sviluppo locale.

 

 

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[1] Un’analisi della diffusione del fenomeno dell’offshoring negli Usa è proposta da Blinder (2007), mentre per una discussione sugli effetti della delocalizzazione produttiva nella capacità tecnologica e di innovazione, si veda Pisano e Shih (2009). Per una analisi comparata delle relazioni fra organizzazione delle catene del valore e capacità di innovazione, sia concesso rinviare a Buciuni, Corò e Micelli (2012).

[2] Fra i contributi più importanti non può mancare il famoso Rapporto curato da Stiglitz, Sen e Fitoussi (2010). Fra le proposte di integrazione del Pil ricordiamo anche il lavoro svolto dal Cnel e dall’Istat nella costruzione dell’indice di benessere equo e sostenibile, nonché il percorso avviato da Unioncamere Veneto con il progetto “Oltre il Pil”, che sviluppa l’analisi a scala regionale.

[3] Il rapporto fra disuguaglianze e sviluppo è stato affrontato da diversi autori: si veda in particolare Wilkinson e Pickett (2009) e Bortolotti (2013).

[4] Oltre ai contributi di Dasgupta già citati nel testo, si veda quanto proposto nella rassegna della Banca Mondiale (World Bank, 2011).

[5] Alcuni esempi sono il progetto TIGER, sviluppato dal Parco scientifico e tecnologico Galileo nei primi anni 2000; il progetto Habitech, realizzato dalla Provincia Autonoma di Trento dal 2005 al 2012; più recentemente il progetto Green Communities, avviato UNCEM, l’associazione dei piccoli comuni di montagna.

[6] Si veda il Protocollo di Intesa del 2005, per il quale sia consentito rinviare a Gurisatti (2011).

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